Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Titolo originale: Mordstafel
© 2005 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
I edizione italiana: marzo 2017
Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
Printed in Germany 2017
ISBN 978-3-96041-231-1
Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Amedeo Avogadro 62
00146 Roma
www.emonsedizioni.it

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Brigitte Glaser

Assassinio à la carte

La cuoca Katharina e la mafia turca

Traduzione di Alessandra Petrelli

Elenco dei personaggi

Katharina Schweitzer – cuoca di talento, ha aperto da poco un ristorante, il Giglio Bianco, nel distretto di Mülheim, a Colonia

Eva Hochstetten – collaboratrice di Katharina al Giglio Bianco

Holger – aiuto cuoco di Katharina

Scarlett Schmitz – ragazza impiegata da Katharina come donna delle pulizie al Giglio Bianco, ha un ratto di nome Otto

Sybille – madre di Scarlett

Martha – mamma di Katharina, proprietaria e cuoca alla locanda Il Tiglio nella Foresta Nera

“Schorschi” Kerner – ex capo di Katharina a Francoforte

Margit Kerner – moglie di Kerner

Adela Mohnlein – amica e coinquilina di Katharina, nonché ostetrica in pensione

Kuno Eberle – commissario svevo in pensione, compagno di Adela

Adalbert von Stumpf, soprannominato “il conte” – poliziotto in pensione di Colonia, amico di Kuno

Walter Neuroth, soprannominato “il cowboy” – poliziotto in pensione di Colonia, amico del conte e di Kuno

Rieger – ispettore della squadra Omicidi di Colonia

Tayfun Yildirim – sceneggiatore che abita di fronte al ristorante il Giglio Bianco

Cengiz Özal – ha una bottega di ferramenta a poca distanza dal ristorante di Katharina e fa parte del comitato di quartiere della Keupstraße

Selma – nipote di Özal, sostituisce Scarlett come donna delle pulizie al Giglio Bianco per qualche tempo

Ecki – ex fidanzato di Katharina, a sua volta cuoco

Karin – volontaria alla mensa di carità “Kölner Tafel”

 

 

 

 

Se ne stava lì, buona buona, sotto il tavolo di quercia.

Scivolata fuori dalla tasca di una giacca, da una borsa, oppure lasciata cadere. Marrone, formato A5, imbottita, sigillata, senza indirizzo. Non c’era niente, assolutamente niente, che lasciasse presagire i guai che mi avrebbe procurato.

“Oggi quelli di Viva erano completamente svalvolati,” disse Eva. “Nessuno di loro sa se verrà riassunto. Molti non vogliono andare a Berlino.”

Annuii distratta e mi misi a sedere. Il trasferimento a Berlino dell’emittente musicale non era un bene né per gli impiegati né per me. Rimanevo senza una fetta cospicua della mia clientela migliore.

“E poi mettere Scarlett a servire in sala non è stata una buona idea, Katharina,” proseguì Eva, mentre, davanti al guardaroba, si metteva l’attillato cappotto a quadri ruggine e cammello. Aveva l’aria stanca, esaurita. “Certo, è svelta e versatile, ma con i clienti non ci sa fare. Oggi ha sussurrato ‘fuck you’ all’orecchio di un redattore un po’ viscido che l’aveva rimproverata perché non era stato servito abbastanza in fretta. Ho dovuto ricorrere a tutto il mio fascino, dopo, per fargli pagare il conto.”

“Niente va per il verso giusto,” sospirai, allungando le gambe appesantite sotto il grande tavolo. “Domani le parlerò. Vuoi cercare qualcun altro?”

Eva scosse la testa di boccoli biondi prima di infilarla in un piccolo colbacco di pelliccia. “Non possiamo permettercelo, giusto? E comunque per adesso reggo benissimo da sola. Ogni tanto qualcuno deve aspettare un pochino di più, ma non è un problema. E poi c’è sempre Holger, che può aiutarmi a servire.”

Eva mi sorrise mentre pescava i guanti dalla borsa. Era in ritardo, non le capitava quasi mai di indugiare in quel modo finito il lavoro.

“Su col morale, Katharina,” cercò di rincuorarmi. “Per domani abbiamo già trenta prenotazioni. Vedrai, presto il locale sarà tutto un brulicare di clienti!”

“Vedi di andartene a casa!” dissi raccogliendo infine la busta.

“Stasera viene a prendermi Ben,” ribatté, sbirciando dietro la tenda in strada, dove proprio in quel momento si stava fermando un’auto. “È lui! A domani!”

Eva aprì piano la porta. Una ventata gelida soffiò dentro il Giglio Bianco. Dalla finestra la guardai avvicinarsi alla macchina ondeggiando lieve, con quella sua andatura fluida e morbida.

Era una donna di una bellezza mozzafiato. Pelle immacolata, occhi castani da cerbiatta, una folta chioma bionda e gambe lunghe quanto quelle di Marlene Dietrich. Quando si era presentata la prima volta, avevo provato un senso di inadeguatezza per il mio posteriore abbondante, il seno prosperoso, la mia statura di tutto rispetto, le lentiggini e i miei riccioli rossi e ribelli. E pensare che non sono una persona insicura.

“Nel… ehm… nel mio ristorante,” avevo balbettato durante il nostro primo colloquio, “ci sarà un unico grande tavolo. Una table d’hôte alla quale i clienti si siederanno non solo per mangiare e bere, ma anche per chiacchierare, discutere, magari persino innamorarsi. Tutti i clienti mangiano insieme, c’è un piatto del giorno, sono previste variazioni su antipasti e dessert. Una struttura del genere richiede molto dal personale di sala.”

Eva aveva ascoltato attentamente le mie spiegazioni, quindi aveva dichiarato che era proprio il genere di sfida che stava cercando. Era convinta di riuscire a tenere a bada un’orda tanto numerosa di clienti affamati, finché tutti avessero avuto qualcosa nel piatto.

“Non posso pagarla molto,” avevo confessato alla fine della conversazione. “Il Giglio Bianco è il mio primo locale.”

Eva aveva chiesto un po’ di tempo per pensarci e io glielo avevo concesso volentieri. Da parte mia avrei potuto valutare con calma se sarei riuscita a sopportare di lavorare con una donna così bella. E se mi avesse fatto concorrenza? E se i critici gastronomici avessero apprezzato l’impeccabile servizio più della superba cucina? E se nelle loro recensioni avessero sottolineato tutti la sua bellezza, spendendo al massimo qualche parola sulla mia risata? Che paure sciocche. La cosa più importante era ottenere recensioni e avere clienti. Se Eva era davvero tanto brava come lasciavano supporre le sue referenze, poteva essere solo vantaggioso averla a bordo con noi.

“Ci sto,” aveva annunciato due giorni dopo. “Un’unica grande tavola imbandita, l’idea mi piace molto… Per quanto riguarda lo stipendio,” aveva proseguito, “vorrei un aumento al termine del periodo di prova.”

“Certamente, se potrò permettermelo,” avevo risposto. E l’avevo assunta.

Ho commesso tanti errori con il Giglio Bianco, ma di questo non mi sono mai pentita.

La busta marrone era sigillata e al momento mi mancava la forza di alzarmi e andare a prendere un coltello per aprirla. La lasciai chiusa.

Ieri quindici coperti, oggi venti, pensai. Erano troppo pochi. Certe volte l’ansia per le questioni economiche era così opprimente che il ristorante non mi dava più alcuna gioia. E dire che il Giglio Bianco era diventato proprio come me lo ero immaginato. Pareti albicocca chiaro, tende ariose alla bella vetrina su Keupstraße e, al centro, il grande tavolo di quercia scuro e levigato, che poteva ospitare fino a trenta persone. Nel caso ci fossero state più prenotazioni, si potevano facilmente aggiungere due prolunghe della stessa foggia. Un ambiente caldo e accogliente, il posto ideale per scordare le preoccupazioni e gustare del buon cibo.

In occasione dell’apertura, Kerner mi aveva regalato una credenza francese di legno scuro del XVIII secolo. Il mio vecchio capo era un vero spilorcio, ma con me si era dimostrato straordinariamente generoso. Era stato solo grazie ai suoi soldi che avevo potuto realizzare il mio desiderio. È da quando sono chef che sogno di non avere pareti divisorie tra la cucina e la sala. Grazie alla vetrata, realizzata con il denaro di Kerner, ora potevo vedere i miei clienti a tavola e loro potevano vedere me mentre cucinavo. Un piacevole mormorio ovattato e incomprensibile filtrava dal ristorante alla cucina, e il rumore di tegami, padelle e cuochi imprecanti non disturbava gli ospiti. Era un po’ come guardare la televisione con il volume abbassato, ma anche senza comprendere i discorsi dei miei clienti, ero in grado di capire se una tavolata funzionava oppure no, grazie all’andamento delle voci e alle espressioni sui visi.

Lungo la vetrata avevamo sistemato una specie di passavivande sul quale Holger e io disponevamo i piatti. Era buffo osservare come a volte gli avventori curiosi o impazienti schiacciassero il naso contro il vetro, come bambini che alzano il coperchio della pentola nella cucina della mamma prima di pranzo.

Dopo molti colloqui ero riuscita a convincere il funzionario di banca responsabile per i crediti d’impresa che i cittadini di Colonia, inclini al contatto umano, abituati a stare gomito a gomito ai banconi delle birrerie, avrebbero accettato un concetto di ristorazione di quel tipo. Adela, che un paio di anni prima aveva aiutato a partorire la moglie del funzionario, mi aveva sostenuto con grande convinzione. Purtroppo, nonostante il contenimento dei prezzi, il mio ristorante risultava ancora troppo caro per invogliare gli abitanti di Colonia a frequentarlo numerosi e con regolarità, e in fase di progettazione, neppure la Cassa di Risparmio aveva potuto immaginare che Viva, l’emittente musicale con sede a Mülheim, sarebbe stata ridimensionata così rapidamente, lasciando disoccupati più di duecento lavoratori, in buona parte clienti abituali del Giglio Bianco.

Con ogni probabilità, quella sera mi sarei crogiolata ancora a lungo nell’autocommiserazione, oppure mi sarei decisa ad aprire la busta, se Adela non mi avesse telefonato.

“Sono da Kurt, tesoro,” cinguettò con voce flautata e allegra la mia amica nonché affittacamere. “Vieni a bere una birra, così facciamo due chiacchiere.”

A quel punto infilai la busta nella borsa insieme a qualche dépliant del Giglio Bianco fresco di stampa e mi decisi a uscire dal mio ristorante vuoto.

Un gelido vento invernale sferzava la Regentenstraße, facendo gemere e scricchiolare i vecchi ippocastani del parco giochi. Alzai il bavero del mio giaccone di cammello e girai a destra. Il grande edificio che ospitava la casa di riposo della Federazione dei lavoratori samaritani e che occupava lo spazio tra la Keupstraße e la Mülheimer Freiheit fino alla Regentenstraße era buio, come sempre a quell’ora. Ogni tanto si accendeva una luce in qualche stanza e dalle finestre socchiuse giungeva fino in strada un gemito soffocato. Così gli anziani inquilini, ridestati dai loro incubi, piombavano nei loro peggiori ricordi. Il puzzo di bruciato della città distrutta, i cadaveri estratti dalle macerie il giorno dopo i bombardamenti, la fame che attanagliava lo stomaco, la nostalgia di casa durante l’evacuazione. Ma forse si lamentavano solo perché da quattro settimane nessuno dei figli andava a trovarli.

Accelerai il passo, vedevo già la vetrina illuminata della birreria Vielharmonie sulla Mülheimer Freiheit e dietro le sagome degli avventori che discutevano e ridevano. Speravo di dimenticare le mie preoccupazioni per un paio d’ore.

Adela era al bancone ancora affollato, intenta a conversare con un uomo della mia età che indossava un giubbotto scamosciato marrone, e mi indicò l’unico sgabello ancora libero. Kurt mi salutò con un breve cenno del capo e mi offrì una birra appena spillata.

“L’ho tenuto libero apposta per te, tesorino,” mi salutò Adela indicando lo sgabello. “Avrai un gran mal di gambe dopo essere stata tutto il giorno in piedi in cucina.”

“Dov’è Kuno?” mi informai dopo aver svuotato il primo bicchiere. Kurt serviva una birra eccezionale, sempre fresca e alla temperatura ideale.

“È ancora in municipio a provare con quelli del coro. Vuole imparare qualche pezzo per i cortei,” mi rispose, prendendo due boccali appena riempiti da Kurt. “È il suo primo carnevale a Colonia, riesce giusto a canticchiare qualcuno dei classici.”

Adela aveva conosciuto il pacato commissario un anno e mezzo prima, nella Foresta Nera. Lui stava svolgendo un’indagine che aveva finito per coinvolgere anche noi, e la mia amica si era innamorata a prima vista del piccolo svevo. Una volta andato in pensione, Kuno Eberle si era trasferito a Colonia da Adela, e la solerte ostetrica lo aveva introdotto con grande zelo agli usi e costumi della sua città natale.

“Me l’ero quasi dimenticato,” dissi. “Dopodomani è già giovedì grasso.”

“E stavolta verrai con noi!” decretò Adela. “Siamo un bel gruppetto: Kuno, Walter, il conte e Sybille.”

“A proposito di Sybille! Devo dire che non mi hai fatto un gran favore presentandomi sua figlia,” dissi per sfogare un po’ la collera. “Come donna delle pulizie Scarlett è una frana; sa servire, ma se i clienti non le vanno a genio sbotta. E poi quel ratto! Lo sa benissimo che non può portarlo al Giglio Bianco, ma è già la terza volta che la sorprendo mentre cerca di nasconderlo nell’armadietto del guardaroba. Un ratto in un ristorante! Se qualcuno venisse a saperlo dovrei chiudere.”

“I ratti sono dappertutto, solo che in genere non li vediamo. Scarlett è giovane e ribelle, ma è una brava figliola,” argomentò Adela a difesa della ragazza che aveva messo al mondo diciott’anni prima. “Sono sicura che riuscirai a tirare fuori il meglio da lei. E Sybille è così felice che tu le abbia dato un lavoro. Nessun altro l’avrebbe assunta, con quel piercing al naso e i capelli tinti di rosso. Sei davvero un tesoro!”

“Fa lo stesso. Al prossimo passo falso la mando via. Sai quanto sia difficile tenere a galla il Giglio Bianco. Non posso permettermi il lusso di pagare dipendenti che non fanno il proprio lavoro.”

“Dipendenti che non fanno il proprio lavoro,” mi scimmiottò Adela. “Adesso che hai un’attività tua, ti comporti come una fredda capitalista! Non dico che tu debba lasciar correre su tutto con Scarlett, ma dovresti concederle almeno qualche sbaglio, prima di buttarla fuori.”

“Vuoi che te li elenchi?”

Adela mi lanciò un’occhiata carica di rimprovero. “Sybille sostiene che Scarlett sia molto più equilibrata da quando lavora da te. Il loro difficile rapporto madre-figlia si è finalmente stabilizzato. Non puoi nemmeno immaginare quanto faccia bene a Sybille! Da tre mesi non mostra più segni di depressione,” proseguì convinta. Era bravissima a usare la leva del senso di colpa.

“E va bene. Le darò un’altra occasione,” acconsentii mio malgrado.

“Sapevo di poter contare su di te,” sospirò sollevata la navigata ostetrica, dandomi un pizzicotto su un fianco.

Mi spostai di lato e così facendo andai a sbattere contro il nostro vicino con il giubbotto scamosciato, che si girò verso di noi.

“Scusa,” dissi.

“Ciao,” mormorò lui.

“Tayfun, Katharina.” Adela fece le presentazioni. “Una volta ho aiutato Tayfun con un parto difficile,” aggiunse, ammiccando verso di lui.

Lo squillo del suo cellulare le impedì di lanciarsi in altre spiegazioni. Dal suo sguardo trasognato capii subito che dall’altra parte c’era Kuno.

“Vado a casa,” dichiarò raggiante. “Vieni anche tu?”

Scrollai la testa. Non avevo nessuna voglia di passare la serata seduta in cucina con quella coppia di anziani innamorati, né di sorbirmi il repertorio di canzoni nel dialetto di Colonia di Kuno.

Adela annuì e lasciò una banconota da venti euro sul bancone bagnato di birra. “Bevete ancora un boccale alla mia salute e divertitevi!”

Diede una manata sul sedere a Tayfun e un buffetto sulla guancia a me, prima di farsi largo verso l’uscita con la sua corporatura bassa e rotondetta. Si girò un’ultima volta e ci gettò un bacio con la mano.

“A vedere lei, si superano tutte le paure sulla vecchiaia,” osservò Tayfun. La seguì per un po’ con lo sguardo, quindi si girò verso di me. “Allora sei tu la cuoca. Adela mi ha raccontato di te.”

Non potevo certo dire lo stesso di lui. Non avevo mai sentito nemmeno una parola su Tayfun e non ero sicura di volerla sentire. Con i capelli lisci e castani e il naso romano aveva un’aria un po’ altera, ma i caldi occhi color cannella ammorbidivano l’insieme. Non era il mio tipo, ma non c’era niente di male a scambiare quattro chiacchiere.

“Tu invece sei un medico?”

“Ehi, guarda che non dobbiamo parlare per forza solo perché ce lo ha detto Adela,” rispose lui con un sorriso. “Se preferisci berti una birra per conto tuo, ti lascio in pace. Basta che rispondi a una domanda, diciamo come esperta. In fondo non mi capita tutti i giorni di essere in compagnia di una cuoca. Che cosa è più importante in cucina: una buona griglia o un buon coltello?”

Che razza di domanda! Mi lanciai in una lunga disquisizione su fuoco e acciaio, e a un certo punto mi ritrovai a parlare di Darwin e della scoperta del fuoco come stadio fondamentale dell’evoluzione umana. Perché Darwin non aveva mai accennato al coltello? Senza lama i nostri antenati avrebbero dovuto continuare a sminuzzare il cibo con i denti.

“Sì, beh, magari potresti avvicinarti un po’ al presente,” osservò Tayfun con una risata, interrompendo il mio fiume di parole.

Non ci sono dubbi, i coltelli sono molto più importanti del fuoco per noi cuochi. Nelle cucine professionali si usa il gas, oppure, come unica alternativa, i fornelli a induzione. Per quanto riguarda i coltelli, invece… Acciaio comune oppure acciaio con manico di legno, fattura di Solingen o francese, un coltello per tutti gli usi, oppure tanti tipi diversi, per carne, verdure, pesce. Ottima affilatura o di porcellana, che non si spunta mai, oppure acciaio giapponese di pari qualità. Coltelli da cento o da cinquecento euro.

“Ogni cuoco lavora sempre con i suoi coltelli,” spiegai. “Sul serio, ci sono colleghi che custodiscono i propri come il bene più prezioso, li portano al lavoro in valigette chiuse a chiave. Perché ti interessa saperlo?”

“Un mio amico, Fred, che ha l’hobby della cucina, compirà quarant’anni. Tra i suoi amici si sono creati due partiti: quelli che vogliono regalargli una griglia di lusso e quelli che preferirebbero il top della coltelleria giapponese. Finora non sapevo da che parte schierarmi.”

“E adesso lo hai capito?”

“Tu che sei una professionista parli con grande entusiasmo dei coltelli, e questo potrebbe significare che Fred ne sarebbe più contento… Anche se istintivamente sono più attirato dal calore del fuoco che dal freddo dell’acciaio.”

“Ti capisco,” dissi, prendendo altre due birre da Kurt. “Vedi, a volte i sondaggi non sono poi così utili.”

“Tra l’altro Fred sta cercando un posto adatto per festeggiare,” proseguì Tayfun dopo aver bevuto una generosa sorsata di birra. “Non è che tu ne conosci uno?”

“Com’è messo a soldi?”

“Ne ha più di me.”

“Io affitto il Giglio Bianco anche per feste private. Aspetta!”

Presi la borsa e tirai fuori uno dei dépliant che ci avevo infilato. Naturalmente, come al solito, erano andati a cacciarsi nell’angolo più nascosto della grande sacca. La busta mi intralciava nella ricerca, così la posai sul bancone e alla fine riuscii a tirare fuori uno degli opuscoli.

“Dallo al tuo amico.”

Tayfun aprì il dépliant, lesse il testo e osservò interessato le foto.

“All’interno sembra molto bello. Caldo e accogliente, del tutto diverso dall’esterno.”

“Lo conosci?” chiesi stupita.

“Ci abito proprio di fronte. Dalla finestra della cucina vedo la porta d’ingresso.”

“E come mai non sei mai venuto a mangiare da me?”

“I prezzi sono troppo salati, non posso permettermelo.”

“Non dico di venire tutti i giorni, però ogni tanto.”

“Dopo aver letto questa pubblicità lo farò,” replicò con un sorriso.

“Cerca di convincere anche il tuo amico Fred,” suggerii.

“Katharina,” ci interruppe Kurt, “se vuoi prendere l’ultimo tram devi spicciarti.”

Un’occhiata all’orologio mi confermò che era già molto tardi. Radunai frettolosamente le mie cose, pagai e salutai.

“Casomai dovessi perdere il tram, torna qui. Io mi fermo ancora un po’,” disse Tayfun porgendomi la sciarpa che mi era caduta in terra.

Mi precipitai fuori. Qualche fiocco di neve cadeva dal cielo e il vento gelido si divertiva a farli turbinare. Ero sola ad affrontare quel freddo. Vidi il 4 che si avvicinava al di là del parco giochi. Mi lanciai in uno sprint fulmineo per le mie capacità e salii al volo. Mi lasciai cadere su uno dei molti sedili liberi con il respiro corto e il cuore in gola. Oltre a me c’era una ragazza punk che mi ricordava un po’ Scarlett. Si teneva aggrappata a una bottiglia di birra e fissava un cartellone pubblicitario della polizia per l’assunzione di giovani diplomati. Chissà se la ragazza prendeva sul serio in considerazione l’ipotesi di andare a lavorare nelle forze dell’ordine. La salutai con un cenno del capo e mi accorsi stupita di essere di ottimo umore. Nelle ultime ore mi ero completamente dimenticata delle mie preoccupazioni finanziarie.

*

A Colonia gli amanti del formaggio si recano ogni settimana in pellegrinaggio al mercato di Riehl, dove mi trovavo in quella fredda mattina di febbraio. La varietà di formaggi erborinati era impressionante, almeno quanto le qualità a base di latte crudo e la gamma di tipi stagionati dall’Austria, la Svizzera, l’Italia e la Francia, tutti ovviamente di ottima qualità. E, cosa ancora migliore, niente affatto cari. Non c’era altro posto a Colonia dove acquistare ottimi formaggi a prezzi così vantaggiosi come dal papa dei formaggi di Siegburg.

“Allora? Com’era il Pont l’Évêque? Avevo forse esagerato?” mi salutò l’ometto canuto porgendomi un cubetto di Butterkäse austriaco che aveva in assortimento.

Dopo altri tre assaggi, lo bloccai. A quell’ora del mattino il mio stomaco, che si era appena riempito con una tazza di caffè, non tollerava troppo formaggio, e l’emicrania causata dalle birre della sera precedente non ne traeva di certo beneficio.

Tutti i mercoledì, con qualsiasi tempo, non appena avevo un momento libero scappavo a fare la spesa al mercato di Riehl. In nessun altro mercato nella parte settentrionale di Colonia potevo trovare tanta varietà di frutta e verdura e specialità, come arrosto di cinghiale dell’Eifel, pane contadino del Baden, granchi del Mare del Nord, cetrioli della foresta della Sprea oppure spezie a peso.

Oltre a una scelta principesca di formaggi, quel mattino mi accaparrai tre quarti di sella di cinghiale e venti porri, poi mi avviai verso il ristorante.

Il traffico era incredibilmente scorrevole sul Mülheimer Brücke e intorno alla Wiener Platz, tanto che arrivai al Giglio Bianco in anticipo. Faticai ad aprire la porta. La serratura era bloccata. Le sedie intorno al grande tavolo erano tutte in disordine, Scarlett non aveva ancora pulito; ogni tanto capitava che arrivasse in ritardo. Non avrei tollerato un simile comportamento ancora a lungo, malgrado le preghiere di Adela.

Tirai fuori la spesa, controllai le provviste, telefonai al pescivendolo e ordinai luccio per il venerdì. Mentre ero intenta a scrivere il menù, arrivò Holger con una scatola da scarpe sottobraccio.

Con le guance arrossate dal freddo, l’incarnato chiaro e i riccioli neri, il mio aiuto cuoco sembrava un angelo barocco. Oltre alla faccia, anche la sua corporatura morbida e rotonda rimandava, con suo grande disappunto, più all’ideale di bellezza barocco che a quello attuale.

“Ti sei comprato delle scarpe?” mi informai.

Lui si affrettò a scuotere la testa. “Peperché sesesei gigigià qui?” tartagliò.

Lo guardai sorpresa, perché ormai non balbettava più da tempo. Due anni prima, quando lavoravamo insieme al Bue d’Oro di Spielmann, aveva tali difficoltà che non parlava quasi mai. All’epoca riusciva a recitare senza balbuzie solo il Faust di Goethe. Ora, dopo molte sedute da una logopedista, pronunciava brevi frasi senza interruzioni, per un massimo di quattro o cinque parole. La balbuzie tornava solo quando era agitato.

“Non ho trovato traffico. Allora, ti sei comprato delle scarpe nuove oppure no?”

Lui scosse la testa. “Sesesegatura per il ratto.”

“Il ratto di Scarlett?” domandai incredula. “Non dirmi che è qui.”

Holger annuì e fece un profondo respiro. “Me lo ha chiesto lei. Solo per due giorni.”

Pronunciò le parole lentamente, ma per fortuna senza intoppi.

“Dove?” chiesi.

“In cantina.”

“Quello stupido animaletto non può assolutamente rimanere al Giglio,” dichiarai.

Holger appariva mortificato e ripeté il suo esercizio di respirazione. “A casa non può stare,” riuscì a dire con uno sforzo. “E poi i ratti non rosicchiano le bottiglie. È solo per due giorni.”

Quella Scarlett! Approfittava della bontà d’animo di Holger che ora faceva leva sulla mia. Appoggiò la scatola su una sedia e mi guardò pieno d’aspettativa con i suoi occhioni azzurri sotto i boccoli.

Holger era un cuoco eccellente, mi era simpatico e io lo ero a lui. Aveva prontamente rinunciato a un posto meglio pagato allo Hyatt quando gli avevo offerto un posto da me. Naturalmente sapevo che non aveva cambiato lavoro soltanto per causa mia. L’aiuto cuoco timido, a volte impacciato, si sentiva più a suo agio nella mia piccola cucina che nella grande batteria dello Hyatt, dove non poteva tener testa alle schermaglie verbali e veniva spesso deriso. In ogni caso, da quando stava al Giglio Bianco, non si era lamentato neppure una volta per gli straordinari o per lo stipendio pagato in ritardo. Nelle ultime settimane aveva ideato e sviluppato il nuovo dépliant per il ristorante, lavorando da casa e senza chiedere un centesimo di più. A Scarlett non avrei mai permesso di parcheggiare il suo ratto al Giglio Bianco. Ma potevo rifiutare quel piacere a Holger?

“Due giorni. In cantina. E se Scarlett non se lo porta via, il ratto si becca il veleno per topi. A proposito, dov’è lei? Avrebbe dovuto essere qui a pulire già da un po’.”

Holger si strinse nelle spalle.

“Fammi vedere dove lo avete nascosto,” gli ordinai.

Lo seguii in cantina. Il ratto era in una robusta scatola tra due casse di vino. Holger gli gettò qualche manciata di segatura da una distanza di sicurezza.

“Perché non ti avvicini?” gli chiesi. “Ti fa paura?”

“Un pochino,” confessò lui appallottolando un foglio di carta da giornale che aveva con sé e gettandolo nella scatola.

“Perché lo fai?” chiesi stupita.

“È un ratto bizzarro,” rispose. “Mangia la carta.”

Quando Eva arrivò, un’ora più tardi, il budino di mele con biscotto e pinoli era nel freezer a raffreddare e la crostata di cotogne si stava caramellando nel forno. L’antipasto di pâté di anatra con gelatina di mele al timo era in frigorifero dal giorno prima. Mentre Holger preparava la lattuga, io mi occupavo della portata principale: sella di cinghiale aromatizzata alla cannella su letto di porri in casseruola.

“Secondo me dovresti fare un discorsetto a Scarlett,” mi disse Eva, dopo che ebbe passato l’aspirapolvere.

“Ci puoi contare!”

Mise a posto l’elettrodomestico con un sospiro. Io intanto sminuzzavo mandorle e uvetta per la crosta della sella.

“Sei proprio sicuro di non sapere dove sia Scarlett?” chiesi a Holger. “Insomma, ti chiede di badare al suo ratto senza dirti altro. Lei e quel roditore erano inseparabili.”

Holger ci pensò su un istante, poi rispose: “Scarlett non dice mai quello che fa.”

Il telefono del ristorante squillò ed Eva corse a rispondere.

“È la madre di Scarlett,” annunciò affacciandosi dalla porta della cucina. “Vuole parlare con sua figlia.”

“Dille che quella svampita non è venuta al lavoro,” dissi.

“Meglio se ci parli tu,” suggerì Eva. “Adela continua a dire che Sybille è una persona fragile e ansiosa.”

Posai il coltello e mi feci passare il telefono.

“Anche noi ci chiediamo dove sia Scarlett, visto che ancora non si è presentata,” sbottai. “Quando è uscita di casa?”

“Non ha dormito qui. A volte succede, ma poi al mattino mi telefona sempre. Oggi non l’ha fatto, e allora…”

A Sybille mancò la voce e la sentii piangere piano.

“Su, non preoccuparti,” cercai di tranquillizzarla. “Sappiamo entrambe che Scarlett non è la persona più affidabile di questo mondo.”

“Per questo ti sono tanto riconoscente che tu le abbia offerto un lavoro,” singhiozzò Sybille.

“Va bene, va bene,” la interruppi brusca.

Ecco che cosa ci guadagnavo a essere generosa. Prima la figlia mi piantava in asso e adesso la madre mi piangeva addosso.

“Scusa,” dissi a denti stretti mentre Sybille continuava a singhiozzare. Intanto la mia emicrania era peggiorata. “Tra mezz’ora arrivano i clienti. Prova a chiamare Adela.”

Meglio se per quel giorno Scarlett evitava di presentarsi. Ero così arrabbiata che l’avrei licenziata in tronco. Lanciai il telefono a Eva, mi strinsi il grembiule, afferrai il coltello e ringhiai imbufalita.

“Come devo tagliare la cicoria?” domandò Holger per distrarmi.

“Prendi soltanto le foglie più piccole e lasciale intere,” risposi, più sgarbata del necessario. “Sei proprio sicuro di non sapere dove sia?”

Lui scosse il capo e si mise a sfogliare la cicoria.

Nelle quattro ore successive mi scordai l’arrabbiatura con Scarlett. Oltre alle trenta prenotazioni, all’ultimo si erano aggiunti altri sei clienti: era il pienone che avrei voluto avere ogni giorno. Gli ospiti sedevano spalla a spalla alla mia table d’hôte, a cui davo di tanto in tanto un’occhiata.

Tre signore un po’ sfiorite sui quarantacinque anni conversavano animatamente. Il ciccione biondo davanti alla finestra raccontava barzellette. Lo spilungone in abito scuro accanto a lui seguiva Eva con sguardo avido. La ragazza si voltò verso di lui, che distolse gli occhi colto sul fatto. Eva sembrava avere la capacità di cogliere simili sguardi. Non permetteva mai a nessuno di contemplarla perso in chissà quali fantasie. Una signora magra con un civettuolo fazzoletto rosso e verde annodato al collo sembrava un po’ sola. Eva si chinò sorridendo verso di lei e poco dopo la donna fece un brindisi disinvolto a una coetanea dalla chioma argentea che le sedeva di fronte. Per l’ennesima volta dovetti riconoscere che senza Eva la mia tavolata probabilmente non avrebbe funzionato.

Holger allineò sul passavivande i piatti vuoti degli antipasti ed Eva ci comunicò le ordinazioni. Pâté di fegato d’anatra con crudité alsaziane, mousse di tonno con pompelmo rosa marinato e insalata d’inverno con dadini di formaggio e salsa di susine. Tanto Holger era impacciato con la lingua, quanto era abile con le mani. Svelto come una faina condiva le insalate, tagliava fette di pâté dello stesso identico spessore, mentre io distribuivo i cubetti di formaggio e gli spruzzatori delle salse. Aveva appena finito di preparare l’ultimo piatto per Eva che si infarinò le mani per impastare le crocchette di patate. Nel frattempo preparai i piatti per la portata principale, sistemai il vassoio dei formaggi, misi sulla teglia le baguette da tostare, disposi sul fornello due grandi padelle per le crocchette con un pezzo di burro in ciascuna. La sella di cinghiale, che cuoceva a fuoco lento sul letto di porri, sprigionava un delizioso profumo d’inverno. Holger maneggiava le due padelle come un giocoliere, io tagliai e distribuii nei piatti la carne e i porri e lui aggiunse le crocchette.

“I due cuori solitari parlano di yoga.”

Eva indicò la signora magra che avevo notato prima. Adesso chiacchierava disinvolta con la sua coetanea.

Dopo aver servito in tavola la pietanza principale, Eva venne in cucina a bere un bicchiere d’acqua.

“Il ciccione seduto davanti alla credenza è incontentabile. Il vino è troppo freddo, il condimento dell’insalata troppo aspro, il pane troppo croccante. Sfido io che la moglie tracanna vino come se fosse acqua. Spero che non finisca con la testa dentro il dessert,” si sfogò brevemente, prima di tornare in sala.

“Prepara la caffettiera,” ordinai a Holger tirando fuori dal frigorifero la mousse di cioccolato bianco e nero.

La mousse di cioccolato soddisfa un intimo, atavico desiderio di dolce, altrimenti il suo successo sarebbe inspiegabile. Siccome tutte le volte che non era sul menù i clienti regolarmente la ordinavano a Eva, avevo deciso di mantenere la “mousse ai quattro cioccolati” come dessert fisso e non trascorreva giorno che non fosse richiesta. Anche quel giorno il numero dei drogati di cioccolato era alto. Eva ordinò il doppio delle mousse rispetto alla crostata e al budino.

Mezz’ora più tardi strofinavo la grande cucina a gas, Holger serviva gli ultimi digestivi ed Eva compilava le ultime ricevute. Poco prima di mezzanotte chiusi il locale. Capitava raramente che tornassi a casa così presto.

Mi misi subito a letto e accesi la tivù. Sul primo canale Myrna Loy e William Powell litigavano in una vecchia pellicola in bianco e nero. Sul secondo Philippe Noiret passeggiava su una spiaggia irlandese in compagnia di Charlotte Rampling, su WDR un intellettuale occhialuto intervistava un ex neonazista e su RTL le Golden Girls di Cuori senza età raccontavano barzellette sporche.

Continuai a fare zapping da un programma all’altro, finché raggiunsi il grado di sonnolenza necessario per addormentarmi.

Due ore più tardi lo squillo del cellulare mi strappò dal sonno.

“Indovina dove sono, Katharina,” biascicò Kerner con la sua tipica parlata di Francoforte.

Non ebbi bisogno di sentire le note smorzate di bebop che mi arrivavano attraverso il telefono per capirlo. Quando Kerner chiamava a quell’ora, era sempre in uno dei locali jazz di Sachsenhausen.

“Datti una mossa e vieni qua. È tanto che non facciamo qualcosa insieme.”

Kerner era ubriaco. Per esperienza sapevo che doveva aver trangugiato almeno dieci bicchieri di sidro e sei di Calvados. Solo con una simile quantità di alcol diventava talmente sentimentale da svegliarmi nel cuore della notte.

“Avevi promesso di venire tutte le volte che potevi,” biascicò. “Invece lo hai fatto una volta sola in nove mesi. Non pensavo che mi avresti scaricato così.”

Non avrei mai immaginato che il mio vecchio capo potesse dimostrarsi tanto appiccicoso. Che cosa si aspettava? Non potevo mica andare a Francoforte tutte le settimane, per passare la notte a gozzovigliare.

“Sai, potevamo fare molte altre cose insieme,” proseguì, mettendo a nudo i propri pensieri. “I miei soldi te li sei presi, ma a me non mi hai voluto.”

Era la prima volta che diventava così esplicito. Kerner, l’amante deluso! La mia unica speranza era che, tornato sobrio, non si ricordasse di quelle scemenze.

“Torna a casa da Margit,” gli dissi. “Richiamami quando hai smaltito la sbornia.”

*

Il sonno tornò senza troppa convinzione e durò troppo poco. Quando il mattino dopo, disfatta, mi trascinai in bagno, dalla cucina sentii rimbombare a tutto volume le immancabili canzoni di carnevale.

Riconobbi la voce di Kuno, straordinariamente baritonale, ma con una orribile cadenza. La porta della cucina si aprì e Adela, vestita da Ape Maia, mi venne incontro con ago e filo ballando a ritmo della musica.

“Stavo giusto per venire a svegliarti, tesorino,” mi salutò allegramente. “Sono già le 10. Se vogliamo essere per le 11 all’Alter Markt devi spicciarti. Puoi appuntarmi l’ala destra? Ha un po’ sofferto l’anno scorso.”

Mi piazzò in mano ago e filo e si chinò in avanti.

Giovedì grasso. Non potevo certo dire di aver aspettato quell’appuntamento con la stessa febbrile trepidazione di Adela, gioendo di quelle giornate caotiche, ma ero troppo stanca per opporre resistenza.

Mi misi a sedere su una delle pile di libri che troneggiavano in corridoio da quando Kuno si era trasferito da noi. Con le foto di gravidanze e neonati che celebravano l’attività professionale di Adela e il mobiletto con il telefono arancione, creavano un bizzarro insieme. Cinque punti e l’ala avrebbe superato una nuova sfilata.

“Ti ho già tirato giù il costume. È sul divano.”

Adela si riprese ago e filo e io la seguii in salotto, ancora in pigiama. Trovai delle calze rosa, un baby-doll bianco a pois rosa e una parrucca bionda.

“Potresti travestirti da Doris Day. Mi ero comprata il costume qualche anno fa.”

La mia immaginazione fu appena sufficiente a figurarmi l’aspetto di Adela, piccola e rotondetta e vicina alla sessantina, con quella mise conturbante, ma non arrivò a proiettarsi su di me.

“Potresti fare anche la Statua della Libertà!”

Adela si mise a rovistare in uno scatolone e mi calcò in testa una stella grigia di gommapiuma. Sempre meglio di Doris Day. In quattro e quattr’otto mi infilò una specie di sacco grigio e aggiunse una fiaccola di plastica. Guardandomi allo specchio mi parve di avere davanti uno spaventapasseri.

“Niente da fare,” decise. “Con quella faccia da funerale devi indossare qualcosa di allegro.”

Si mise a rovistare in un altro scatolone, un po’ meno eccitata di prima.

“Scusami,” cercai di giustificare il mio scarso entusiasmo, “non ho quasi chiuso occhio.”

Adela annuì distratta e tirò fuori rose di plastica, tulipani di plastica, girasoli di plastica, mughetti di plastica, un pezzo di prato artificiale e un vecchio cappello di paglia.

“Senti, tesorino,” disse poi. “Sono settimane che mi preparo a festeggiare il carnevale insieme a voi. Ieri Sybille mi ha dato buca, se adesso anche tu…”

“Scarlett è tornata?” la interruppi infilando qualche fiore di plastica nel cappello.

“In che senso?” domandò Adela confusa.

Le raccontai dell’assenza di Scarlett e della telefonata di Sybille. “Era fuori di sé dall’ansia. Le ho consigliato di chiamarti, perché io non avevo tempo,” conclusi.

Adela mi informò che Sybille non le aveva fatto parola di Scarlett. Si era scusata di non poter partecipare alla parata spiegando che la festa di carnevale aziendale quell’anno era obbligatoria per tutti i dipendenti e quindi lei non avrebbe potuto essere per le 11 all’Alter Markt.

“Allora credo proprio che Scarlett si sia fatta sentire,” conclusi, mostrando il cappello ad Adela.

“Niente male,” commentò lei, tornando a sorridere. “Fissiamo qualche altro fiore al prato artificiale e potrai mascherarti da primavera.”

Mezz’ora più tardi mi presentai in cucina travestita da fresca primavera e trangugiai il caffè che mi aveva preparato Kuno. Il vecchio commissario era quello di sempre. Con un paio di calzoni sformati e una camicia stropicciata di un colore indefinibile, cantava a squarciagola l’inno nazionale nella versione del più famoso gruppo folk locale. Le ore di canto sembravano essere servite a qualcosa.

“Kuno non si traveste?” chiesi mentre Adela si rimpinzava del secondo bombolone. La sua faccia truccata di giallo ape era impiastricciata di zucchero.

“Non ha voluto mascherarsi da apicoltore,” biascicò lei tra un boccone e l’altro.

“Io faccio il fuco fico,” ridacchiò Kuno, indicando la giacca logora gettata sulla spalliera di una sedia. All’occhiello aveva infilato un pretenzioso fiore di carta.

Era di gran lunga il travestimento più economico che avessi mai visto in vita mia.

Presi anch’io un bombolone. Di sicuro mi farà bene dimenticare per un po’ il Giglio Bianco, i problemi di soldi e l’arrabbiatura con Scarlett, pensai, iniziando a entusiasmarmi per l’imminente parata di carnevale.

Kerner mi beccò mentre mi dipingevo sulla faccia un elaborato rampicante con i trucchi di scena di Adela.

“Margit vuole acquistare un piccolo bistrot raffinato a Sachsenhausen,” disse senza troppi preamboli, con una voce perfettamente sobria. “Ci ha messo su gli occhi già da parecchio.”

Non pronunciò neppure una parola sulla nostra telefonata notturna. In un primo momento non compresi perché volesse aggiornarmi sulle intenzioni di acquisto della moglie, ma non tardai a capirlo.

“Questo significa,” proseguì il mio vecchio capo, “che mi servirebbe prima del previsto il denaro che ti ho prestato.”

Lo sapevo. Non solo da quando Kerner aveva cominciato a telefonarmi di notte. Lo avevo intuito già da un anno. L’istinto mi aveva detto chiaramente che ci sarebbero stati problemi se avessi chiesto un prestito a Kerner. Ma la prospettiva di realizzare il sogno della vetrata tra cucina e sala e di potermi comprare il forno a vapore mi aveva accecato, e così avevo ignorato tutti i segnali di allarme. Inoltre all’epoca Kerner mi aveva praticamente piazzato i soldi in mano.

“Quando si fanno certe cose,” mi aveva persuaso, “bisogna farle per bene. Solo i perdenti lasciano le cose a metà. I trentamila che ti mancano, te li presto io. In questo momento non mi costa nulla darti del denaro. Me lo restituirai una volta avviato il ristorante.”

Altro che avviare il ristorante! Adesso ero nei guai.

“Gli accordi non erano questi, Kerner,” riuscii a obiettare. “Per adesso non posso restituirti i soldi. Riesco a malapena a rientrare delle spese, e per me rimane uno stipendio da fame.”

“Credimi, Katharina, se fosse per me non sarebbe necessario,” dichiarò lui, “ma visto che Margit si è innamorata di questo bistrot, è davvero un gioiellino, devo ammetterlo, è sorto un problemuccio che non avevo calcolato. Devi sapere che non le avevo detto niente dei trentamila che ti ho prestato. Sai, è sempre stata convinta che tu mi piacessi e che tra di noi ci fosse qualcosa.”

Tra di noi non c’era mai stato niente. Dopo una notte di baldoria insieme, Kerner aveva cercato di portarmi a letto, ma aveva accettato il mio rifiuto con perfetto savoir-faire.

“Se adesso le dico che ti ho prestato trentamila euro, penserà che…”

Kerner era un imprenditore, aveva un avviato servizio di catering a Francoforte, due ristoranti in ottima posizione in città, e mi ero detta che non avrebbe mai sovvenzionato un progetto come il mio se non fosse stato convinto al cento per cento della sua riuscita. Naturalmente avevo dato per scontato che avesse discusso con la sua metà, nonché socia in affari, un investimento da trentamila euro. Invece non aveva informato la sua Margit. Alla fine dovevo rassegnarmi: Kerner mi aveva prestato i soldi per puro sentimentalismo. Non so più quante volte ero annegata in una pinta con lui di notte, ascoltando i suoi racconti di quando da giovane faceva il giro dei locali jazz di Sachsenhausen con gli studenti americani, di quanto fosse facile all’epoca finire a letto con newyorkesi di gamba lunga entusiaste dell’Europa: bastava parlare un po’ di Woody Allen e del ruolo del jazz nella Nouvelle Vague, mentre in sottofondo passavano le note di John Coltrane. Intanto si lamentava della responsabilità di gestire trenta dipendenti e di una moglie con una mentalità d’affari rigida quanto la sua piega cotonata. A cinquant’anni, piagnucolava, la sua giovinezza era irrimediabilmente perduta. Lo confermavano i dieci chili di sovrappeso e un colore di capelli passato dal biondo cenere al grigio cenere. Notte dopo notte lo stavo ad ascoltare, non avevo nient’altro da fare. Non ero di gamba lunga né americana, ma di quindici anni più giovane, senza una piega bionda cotonata e un calcolatore al posto del cuore, e così Kerner mi aveva scelto per ingannare la sua crisi di mezza età, e io, chiusa nel mio bozzolo delle recenti ferite amorose, grata di ogni sera che non dovevo passare da sola, non me ne ero resa conto.

“Non venirmi a raccontare che non hai altro modo per recuperare trentamila euro, Kerner. In questo momento non sono assolutamente in grado di restituirti i soldi,” dichiarai, interrompendo la conversazione.

Tornai in corridoio turbata e ignorai il trillo del campanello. Adela mi svolazzò davanti nel suo costume da ape e aprì la porta d’ingresso.

“Incantevole questo costume da ape,” si complimentò un uomo alto quanto me, con frac e cilindro e una bottiglia di spumante sottobraccio. Fece un profondo inchino ad Adela e le baciò la guancia impiastricciata di zucchero. “Se non temessi la tremenda vendetta di Kuno, ti farei una corte spietata.”

Adela ridacchiò e fece accomodare anche il cowboy con la camicia a scacchi, il fazzoletto al collo e il pastrano di camoscio macchiato che era sulla porta.

Enchanté, madame.

L’uomo in cilindro mi prese la mano e me la baciò galante.

“Mi permetta di presentarmi: Arsenio Lupin, ladro-gentiluomo.”

“Buon carnevale,” disse il cowboy toccandosi brevemente la tesa del cappello.

“Venga, mia cara,” mi invitò Arsenio, spargendo altro fascino e prendendomi sottobraccio, “dobbiamo brindare al nostro incontro.”

Adela ci superò ridacchiando ed entrò in cucina dove Kuno intanto si era infilato la giacca con il vistoso fiore di carta.

“Vi siete già presentati?” domandò, dando una pacca sulle spalle del cowboy. “Katharina, ti presento Walter, mentre il gentiluomo è un vero aristocratico, Adalbert von Stumpf. Parla così pomposo anche nella vita reale.”

Adela mi aveva già informato. I due uomini tanto diversi erano poliziotti in pensione e Kuno li aveva conosciuti nel bar del commissariato. Da allora si incontravano con regolarità.

“Prego, calici da champagne,” ordinò il gentiluomo, e Adela si affrettò a tirare fuori dalla credenza il servizio buono.

“Buon carnevale,” ripeté il cowboy vuotando il proprio bicchiere in una volta sola.

“Le piace l’arte moderna, signorina?” mi domandò il conte.

“Dovete darvi del tu,” decretò Adela guardandomi. “La faccia truccata a metà è fatta apposta?”

Kerner mi aveva interrotto mentre mi dipingevo il rampicante. Al diavolo! Rivoleva i suoi soldi, così, su due piedi. Mentre mi aveva sempre assicurato che mi avrebbe lasciato tutto il tempo necessario per rimborsarlo.

“Certamente,” risposi. “Come nella vita. A volte qualcosa si spezza di colpo, senza preavviso.”

“Arte moderna, lo dicevo io.” Il conte si sentì confortato.

“Possiamo andare?” intervenne Kuno. “Avete lasciato a casa documenti e carte di credito e avete con voi solo lo stretto necessario? Ai borseggiatori piace derubare, in particolare gli ex poliziotti.”

“Sei incorreggibile,” lo prese in giro Adela accarezzandogli teneramente i capelli diradati. “Noi siamo dei veri professionisti del carnevale. Certe cose non ci succedono. Ti sei messo i calzini pesanti?”

Quando ci ritrovammo sulla Kasemattenstraße fummo accolti da una fredda e bella giornata di febbraio. Un clima da manuale per il giovedì grasso. Insieme a noi, dalla casa accanto, uscirono due sorelle attempate che, nonostante i buffi cappellini da carnevale, erano impeccabili come sempre. Il conte le salutò con galanteria e loro ricambiarono con risolini impacciati e un accenno di riverenza. Kuno prese sottobraccio Adela da un lato e me dall’altro e propose di andare a piedi.

Tre robuste venditrici del mercato, con i tipici portabicchieri da collo fatti all’uncinetto, puntarono gli occhi sul conte. “Ecco uno che ci offre una birra”, pigolarono. “Ma guarda che bel figurino!”

Il conte evidentemente non ricambiava il loro entusiasmo e assunse un’espressione altezzosa.

“Ehi, ma chi ti credi di essere?” esclamarono quelle fingendosi offese, prima di riprendere il cammino a braccetto, ridendo.

Sulla vicina Von-Sandt-Platz, gli appassionati di bocce invernali si stavano sfidando in un piccolo torneo. Avvoltoi, orsi, lavandaie, clown e banconote da un dollaro cercavano di lanciare le sfere argentate il più vicino possibile al maialino di legno. Una mamma orso con in braccio una principessa e per mano un astronauta li salutò affabile.

All’altezza della Neuhöfferstraße si unì a noi un drappello di pagliacci variopinti. Uno di loro trasportava una grancassa su un passeggino fuori uso.

“Buon carnevale,” li salutò il cowboy.

“Buon carnevale,” risposero in coro i clown, accompagnando il saluto con qualche vigoroso colpo di tamburo.

Kuno ci condusse sul Deutzer Brücke, dove attraversammo il Reno in mezzo a un flusso crescente di maschere. Un tram ci superò scampanellando, pieno zeppo di persone travestite che, nonostante la limitata libertà di movimento, agitarono le braccia per salutarci.

“Buon carnevale!” augurò loro il cowboy.