Luigi Pirandello - La Collezione Essenziale

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Sommario
Luigi Pirandello - La Collezione Essenziale
Il turno
Il fu Mattia Pascal
Così è (se vi pare)
Enrico IV
Uno, nessuno, e centomila
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La giara

Il turno

Luigi Pirandello


I.

Giovane d'oro, sì sì, giovane d'oro, Pepè Alletto! - il Ravì si sarebbe guardato bene dal negarlo; ma, quanto a concedergli la mano di Stellina, no via: non voleva se ne parlasse neanche per ischerzo.

- Ragioniamo!

Gli sarebbe piaciuto maritar la figlia col consenso popolare, come diceva; e andava in giro per la città, fermando amici e conoscenti per averne un parere. Tutti però, sentendo il nome del marito che intendeva dare alla figliuola, strabiliavano, strasecolavano:

- Don Diego Alcozèr?

Il Ravì frenava a stento un moto di stizza, si provava a sorridere e ripeteva, protendendo le mani:

- Aspettate… Ragioniamo!

Ma che ragionare! Alcuni finanche gli domandavano se lo dicesse proprio sul serio:

- Don Diego Alcozèr?

E sbruffavano una risata.

Da costoro il Ravì si allontanava indignato, dicendo:

- Scusate tanto, credevo che foste persone ragionevoli.

Perché lui, veramente, ci ragionava su quel partito, ci ragionava con la più profonda convinzione che fosse una fortuna per la figliuola. E s'era intestato di persuaderne anche gli altri, quelli almeno che gli permettevano di sfogare l'esasperazione crescente di giorno in giorno.

- Avete voluto la libertà, santo Dio! il re che regna e non governa, la leva per tutti, un esercito formidabile, ponti e strade, ferrovie, telegrafo, illuminazione: cose belle, bellissime, che piacciono anche a me: ma si pagano, signori miei! E le conseguenze quali sono? Due, nel caso mio. Numero uno: ho lavorato come un arcibue, tutta la vita, onestamente per mia disgrazia e non son riuscito a mettere da parte tanto da poter per ora maritare la figlia secondo il suo piacere, che sarebbe anche il mio. Numero due: giovanotti, non ce n'è: intendo dire di quelli che a un padre previdente possano assicurare, sposando, il benessere della figliuola: prima che si facciano una posizione, Dio sa quel che ci vuole; quando se la son fatta, pretendono la dote e fanno bene; senza posizione, in coscienza, quale padre affiderebbe loro la figlia? Dunque? Dunque bisogna sposare un vecchio, vi dico, se il vecchio è ricco. Di giovani poi, volendo, alla morte del vecchio, ce n'è quanti se ne vuole.

Che c'era da ridere? Parlava da senno, lui! Perché:

- Ragioniamo…

Se don Diego Alcozèr avesse avuto cinquanta o sessant'anni, no: dieci, quindici anni di sacrifizio sarebbero stati troppi per la figliuola; ed egli non avrebbe mai accettato quel partito. Ma ne aveva, a buon conto, settantadue, don Diego! E non c'era dunque da temer pericoli di nessuna sorta. Più che matrimonio, in fondo, sarebbe quasi una pura e semplice adozione. Stellina entrerebbe come una figliuola in casa di don Diego: né più né meno. Invece di stare in casa del padre, starebbe in quell'altra casa, con più comodi, da padrona assoluta: casa d'un galantuomo alla fin fine: nessuno osava metterlo in dubbio, questo. Dunque, che sacrifizio? Aspettare qua o là. Con questa differenza, che aspettare qua, in casa del padre, sarebbe tempo perduto, non potendo egli far nulla per la figliuola; mentre, aspettando là, tre, quattr'anni…

- Mi spiego? - domandava a questo punto il Ravì,  abbagliato lui stesso dalle sue ragioni e sempre più convinto.

Don Diego Alcozèr aveva già preso quattro mogli? E che per questo? Tanto meglio, anzi! Stellina non sarebbe così sciocca da farsi (e squadrava le corna) sotterrare dal vecchio, come le altre quattro: col tempo e con la mano di Dio avrebbe lei, invece, composto in pace il corpo del marito benefattore, e allora, ecco, allora sì il giovanotto! Bella, ricca, allevata come una principessina, sarebbe stata un vero panin di zucchero; e i giovanotti, così, a sciame, come le mosche, attorno a lei.

Gli pareva impossibile che la gente non si capacitasse di questo suo ragionamento: era caparbietà, cocciutaggine, arrestarsi a considerar soltanto il sacrifizio momentaneo di quelle nozze col vecchio. Come se oltre quello scoglio, oltre quella secca, non ci fosse il mare libero e la buona ventura! Lì, lì, bisognava guardare!

Se egli fosse stato ricco, se avesse potuto far da sé la felicità della figliuola - bella forza! si sa, non l'avrebbe data in moglie a quel vecchiaccio. Stellina certo, per il momento, non poteva apprezzare la fortuna che egli le procacciava: questo era naturale e in certo qual modo scusabile! Di lì a pochi anni però - ne era sicuro - ella lo avrebbe lodato, ringraziato e benedetto. Non sperava, né desiderava nulla per sé, da quel matrimonio; lo voleva unicamente per lei, e stimava dover suo di padre, dover suo di vecchio provato e sperimentato nel mondo, tener duro e costringere la figliuola inesperta a ubbidire. Lo amareggiava invece profondamente la disapprovazione di uomini d'esperienza come lui.

- In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, - si lamentava intanto, in casa, la moglie del Ravì, la si-donna Rosa, accennando il segno della croce con un gesto che le era abituale e che ripeteva ogni qual volta si sentiva infastidita e urtata nella gravezza della sua gialla carne inerte: - Lasciatelo fare. Ciò che fa Marcantonio, per me, è ben fatto, - diceva ai parenti che sottovoce le facevan notare la mostruosità di quel progetto di nozze.

- Peccato mortale, si-donna Rosa! - s'affannava a ripeterle Carmela Mèndola, portavoce del vicinato, parlando quasi con la strozza, per non gridare, e dandosi pugni rintronanti sul petto ossuto: - Se lo lasci dire, in coscienza: peccato mortale, che grida vendetta davanti a Dio !

E, tutta scalmanata, si scioglieva e si rannodava sotto il mento le cocche del gran fazzoletto rosso di lana che teneva in capo.

La si-donna Rosa stringeva le labbra, sporgeva il mento, chiudeva gli occhi e soffiava per il naso un lungo sospiro.

II.

Don Diego Alcozèr già si faceva vedere per la città in compagnia del futuro suocero.

Marcantonio Ravì, bonaccione, grasso e grosso, col volto sanguigno tutto raso e un palmo di giogaja sotto il mento, con le gambe che parevan tozze sotto il pancione e che nel camminare andavano in qua e in là faticosamente, sembrava fatto apposta per compensar don Diego fino fino, piccoletto, che gli arrancava accanto con lesti brevi passetti da pernice, tenendo il cappello in mano o sul pomo del bastoncino, come se si compiacesse di mostrar quell'unica e sola ciocca di capelli, ben cresciuta e bagnata in un'acqua d'incerta tinta (quasi color di rosa), la quale, rigirata, distribuita chi sa con quanto studio, gli nascondeva il cranio alla meglio.

Niente baffi, don Diego, e neppur ciglia: nessun pelo; gli occhietti calvi scialbi acquosi. Gli abiti suoi più recenti contavano per lo meno vent'anni; non per avarizia del padrone, ma perché, ben guardati sempre dalle grinze e dalla polvere, non si sciupavano mai, parevano anzi incignati allora allora.

Così, ahimè, s'era ridotto uno dei più irresistibili conquistatori di dame in crinolino del tempo di Ferdinando II re delle Due Sicilie: cavaliere compitissimo, spadaccino, ballerino. Né i suoi meriti si restringevano solo qui, nel campo, com'egli diceva, di Venere e di Marte: don Diego parlava il latino speditamente, sapeva a memoria Catullo e la maggior parte delle odi di Orazio:

 

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem dî dederint…

 

Ah, Orazio; da lui, suo prediletto poeta, don Diego aveva desunto le norme epicuree. Aveva goduto tutta la vita e voleva fino all'ultimo godere; odiava perciò la solitudine, nella quale si sentiva spesso turbato da paurosi fantasmi, e amava la gioventù, di cui cercava la compagnia, sopportandone filosoficamente gli scherzi e le beffe.

Ecco: batteva il pomo d'argento del bastoncino d'ebano sul tavolinetto innanzi al Caffè del Falcone, mentre il Ravì si lasciava cader su la seggiola che scricchiolava, e sbuffando e buttandosi su la nuca il cappellaccio a larghe tese, si asciugava il sudore dalla faccia paonazza.

- A me, al solito, - diceva l'Alcozèr al cameriere, - un'orzata.

E accompagnava la ordinazione con una risatina fredda, superflua, accennando di stropicciarsi le manine gracili e tremule: - Eh eh…

Seduti al Caffè, ripigliavano il discorso del matrimonio, interrotto di tanto in tanto dai saluti che don Marcantonio distribuiva a voce alta e con larghi gesti a gl'innumerevoli suoi conoscenti:

- Baciamo le mani! La grazia vostra! Servo umilissimo!

Don Diego non era ancora potuto entrare in casa della promessa sposa. Stellina minacciava di graffiargli la faccia, di cavargli tutti e due gli occhi, se egli si fosse arrischiato di presentarsi a lei. Il Ravì,  s'intende, non parlava a don Diego di queste minacce della figliuola; diceva soltanto che bisognava avere un po' di pazienza, perché le ragazze, oh Dio, si sa…

- Bene bene; quando dici tu, o meglio, quando Stellina permetterà… intra paucos dies, spero, cupio quidem, - rispondeva don Diego, tranquillo e sorridente. - Intanto, guarda, per oggi le porterai questo qui.

E traeva dalla tasca un astuccetto di velluto.

Oggi un braccialetto, jeri un orologino con la catenina d'oro e di perle, e prima un anellino con perle e brillanti e una spilla di smeraldi o un pajo di orecchini… L'Alcozèr non spendeva nulla; non per avarizia: aveva tante gioje delle defunte mogli: che doveva farsene? Le mandava alla nuova fidanzata, ripulite dall'orefice, chiuse in astuccetti nuovi.

Marcantonio Ravì profondeva lodi, esclamazioni ammirative, ringraziamenti.

- Ma voi così, don Diego mio, ci confondete…

- Non ti confondere, asino! Ho esperienza del mondo e so che i regali ci vogliono.

Don Marcantonio si cacciava in tasca il dono e sbuffava dalla stizza per la caparbia ostinazione della figliuola, che, pur di non cedere, si contentava di star chiusa in una camera, assediata, rifiutando anche il cibo.

La madre stava di guardia presso l'uscio di quella camera, come una sentinella. Venivano i parenti, la Mèndola o qualche altra vicina a tentare ancora di metterla sù contro il marito, ma ella tornava col solito gesto ad accennare il segno della croce.

- In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo! Non mi mettete altra legna sul fuoco: me ne manca forse, donna Carmela mia? Vedete in quale inferno mi trovo?

- Zia Carmela! - chiamava Stellina, dietro l'uscio.

- Figlia mia bella, che vuoi?

- Dica a sua figlia Tina che si affacci alla finestra: voglio farle vedere una cosa.

- Sì, cuore mio bello! Or ora glielo dico. Coraggio, cuore mio! Pìgliati quest'involtino: te lo faccio passare di sotto l'uscio. Mangia, che ti piacerà.

- Tante grazie, zia Carmela!

- Niente, figliuola cara. E tieni duro, tieni duro! non ci vuol altro…

La si-donna Rosa lasciava dire e lasciava fare. E ogni giorno, appena il marito rincasava, gli rivolgeva la solita domanda:

- Debbo? - E con la mano faceva il gesto di mandar la chiave per aprire l'uscio.

- No! - le gridava egli. - Stia lì, lì, brutta ingrata! cuor di macigno! Come se non lo facessi per lei, per il suo bene! Tieni: un altro regalo, un braccialetto… faglielo vedere!

La si-donna Rosa si alzava, chiudeva gli occhi, sospirava e, con l'astuccetto in mano, entrava nella camera della figliuola.

Stellina se ne stava presso il letto, accoccolata per terra, sul tappetino, come una cagnetta ringhiosa. Strappava di mano alla madre il regalo e lo scaraventava a terra.

- Grazie tante, non lo voglio!

La madre allora perdeva la pazienza anche lei.

- Sedici onze di braccialetto, asinaccia! Non sei neanche degna di guardarla tanta grazia di Dio!

Stellina, appena uscita la madre, stropicciava il gomito del braccio sinistro sulla palma della mano destra e diceva a denti stretti:

- Rodetevi! Rodetevi!

Poi si ricomponeva la veste su le gambe, si alzava da sedere, gironzava un po' per la camera e, finalmente, eccola lì, presso il cassettone a guardar sottecchi il regalo raccattato dalla madre. La curiosità era più forte della repulsione per il vecchio donatore.

Si guardava nello specchietto a bilico, si rialzava i capelli dietro la nuca e sorrideva alla propria immagine: il visetto fresco e leggiadro apriva in quello specchio due occhi azzurri limpidi e gaj. Con quel sorriso, pareva sussurrasse a se stessa: " Birichina! ". E le veniva la tentazione di aprire quegli astucci, di provarsi… via, almeno gli orecchini… per un minuto, gli orecchini.

- No, questo è l'anello… M'andrà certo troppo largo… No, preciso! oh guarda… par fatto apposta per il mio dito…

E si ammirava la manina bianca inanellata, avvicinandola, allontanandola, piegandola or di qua or di là. E poi gli orecchi con gli orecchini, e poi i polsi coi braccialetti, e poi sul seno la lunga catena d'oro dell'orologino; e, così parata, andava a farsi un profondo inchino allo specchio dell'armadio:

- A rivederla, signora Alcozèr!

E una gran risata.

III.

- Ecco… va bene: io non ho fretta, Marcantonio mio, - diceva, il giorno dopo, don Diego al Ravì,  nel Caffè del Falcone: - Però, ecco… non per me, ma per il vicinato: sotto le finestre di casa tua (tu forse hai il sonno greve e non senti), quasi ogni notte si fanno serenate: chitarre e mandolini, eh eh… Lo so: giovanotti allegri… Che bellezza, la gioventù! Sai chi sono? I fratelli Salvo coi cugini Garofalo e Pepè Alletto: chitarre e mandolini.

- Vi giuro, don Diego mio, che non ne so nulla parola di galantuomo! Dite davvero? Serenate? Lasciate fare a me. Or ora vi fo vedere io, se…

- Dove vai?

- In cerca di codesti signorini che mi avete nominati.

- Sei matto? Siedi qua! Vuoi compromettermi?

- Voi non c'entrate!

- Come non c'entro, asino? Ci guastiamo, bada. Senza tante furie. Soglio far le cose con calma, io. Son giovanotti, e cantano: gioventù vuol dire allegria… Sa cantare anche Stellina, m'hai detto? Bene; il canto mi piace. Dicevo soltanto per il vicinato che sta a sentire ogni notte, e… capirai, le male lingue… Tu dovresti consigliare a codesti giovanotti un po' di pazienza, mi spiego? perché hai la puella già sposa. Ma con buona maniera, con calma.

- Lasciate fare a me.

- Senza compromettermi, oh!

La sera di quello stesso giorno, Marcantonio Ravì  imbattendosi per via in Pepè Alletto, se lo chiamò in disparte e gli disse:

- Caro don Pepè, vi prego con buona maniera di lasciare in pace mia figlia; se no, faccio come quel tale; lo vedete questo bastone? Ve lo rompo in resta la prima volta che vi vedo ripassare col naso in aria sotto le finestre di casa mia.

Pepè Alletto lo guardò prima stordito, come se non avesse compreso; poi si tirò un passo indietro:

Ah sì? E se io vi dicessi…

- Che siete cognato di Ciro Coppa, bau bau? - compì la frase il Ravì.

- No! - negò, acceso di sdegno, il giovanotto. - Se vi dicessi che a me personalmente bastoni su la testa non ne ha mai rotti nessuno?

Il Ravì si mise a ridere.

- O non lo vedete che scherzo? Ditemi voi stesso, don Pepè mio, in quali termini vi debbo pregare. Che volete da mia figlia? Se non siamo bestie, proviamoci a ragionare. Voi siete nobile, ma siete scarso, caro don Pepè. Anch'io sono un pover'uomo abbruciato di danari. Povertà non è vergogna. Sapete che vi voglio bene: venite qua, ragioniamo.

Gli passò una mano sotto il braccio e si avviò con lui, seguitando:

- Quanto a ballare, lo so, ballate come se non aveste fatto mai altro in vita vostra. Anche con gli speroni ai piedi, m'hanno detto. E sonare, sonate il pianoforte come un angelo… Ma, caro mio don Pepè, qui non si tratta di ballare, mi spiego? Ballare è un conto; mangiare, un altro. Senza mangiare, non si balla e non si suona. Debbo aprirvi gli occhi proprio io? Lasciatemi combinare in pace questo benedetto matrimonio, e ajutatemi anzi, diàscane! Il vecchio è ricco, ha settantadue anni e ha preso quattro mogli… Gli diamo ancora tre anni di vita? L'avvenire poi è nelle mani di Dio. Dite un po': quale può essere l'ambizione d'un onesto padre di famiglia? La felicità della propria figliuola, ne convenite? Oh: chi è scarso è schiavo: schiavitù e felicità possono andar d'accordo? No. Ergo, prima base: denari. La libertà sta di casa con la ricchezza; e quando Stellina sarà ricca, non sarà poi libera di fare ciò che le parrà e piacerà? Dunque… che dicevamo? Ah, don Diego… Ricco, don Pepè mio! Ricchezze ne ha tante, che potrebbe lastricare di pezzi di dodici tarì tutta Girgenti, beato lui! Don Pepè, accettatemi qualcosina qua al Caffè…

L'Alletto pareva caduto dalle nuvole: non sapendo che pensare di quel discorso, guardava negli occhi il Ravì sorridendo.

Per dir la verità non aveva mai aspirato seriamente alla mano di Stellina; ne questa, per altro, aveva mai dato motivo a lui di farsi qualche illusione, più che non ne avesse dato a tant'altri giovanotti che le gironzavano attorno. La ragazza, sì, gli piaceva; ma sapeva pur troppo di non essere in condizione di prender moglie, e neanche ci pensava. Viveva con la madre settantenne, che, nella sua ingenua amorevolezza, si ostinava a trattarlo ancora come quand'aveva dieci anni. Povera santa vecchina! Bisognava aver pazienza con lei; anche per compensarla di tutto quello che le era toccato di soffrire col padre, il quale in pochi anni aveva dato fondo a tutto il patrimonio; e n'era poi morto di crepacuore. Dalla rovina si era soltanto salvata, per miracolo, la vecchia casa, in cui abitava con la madre.

Donna Bettina, nobile di nascita, non voleva assolutamente permettere che egli, Pepè, entrasse in qualche impiego, che forse il cognato, Ciro Coppa, con le sue aderenze avrebbe potuto procurargli. Ma di questo, Pepè, in fondo, non s'affliggeva molto. Lavorare non era il suo forte. Ogni mattina tre ore, per lo meno, davanti allo specchio: abitudine! Che poteva farci? Il bagno, le unghie lunghe da coltivare, poi pettinarsi, raffilarsi la barba, spazzolarsi. E quando alla fine, sul far della sera, usciva di casa, pareva un milordino. La vecchia casa, al Ràbato, custodiva intanto gelosamente il segreto miserevole dei sacrifizii ostinati e delle più dure privazioni.

Ah, se invece di nascere in quella triste cittaduzza moribonda, fosse nato o cresciuto in una città viva, più grande, chi sa! chi sa! la passione che aveva per la musica gli avrebbe forse aperto un avvenire. Una forza ignota nell'anima se la sentiva: la forza che lo tirava in certi momenti alla vecchia spinetta scordata della madre e gli moveva le dita su la tastiera a improvvisare a orecchio minuetti e rondò. Certe sere, mentre contemplava dal viale solitario, all'uscita del paese, il grandioso spettacolo della campagna sottostante e del mare là in fondo rischiarato dalla luna, si sentiva preso da certi sogni, angosciato da certe malinconie. In quella campagna, una città scomparsa, Agrigento, città fastosa, ricca di marmi, splendida, e molle d'ozii sapienti. Ora vi crescevano gli alberi, intorno ai due tempii antichi, soli superstiti; e il loro fruscìo misterioso si fondeva col borbogliare continuo del mare in distanza e con un tremolìo sonoro incessante, che pareva derivasse dal lume blando della luna nella quiete abbandonata, ed era il canto dei grilli, in mezzo al quale sonava di tanto in tanto il chiù lamentoso, remoto, d'un assiolo.

Ma di questi suoi strani momenti Pepè si vergognava, quasi, con se stesso, temendo che i suoi amici se n'accorgessero. Che baja, allora! No, via; neanche a pensarci: lì, nella vita gretta, meschina, monotona, di tutti i giorni, lì era la realtà, a cui bisognava adattarsi.

Che gli diceva intanto il Ravì ? che voleva da lui? Evidentemente quel buon uomo sospettava che tra lui e la figlia ci fosse qualche intesa, per la quale ella non volesse acconsentire al matrimonio con l'Alcozèr. Ebbene, perché non lasciarlo in quell'inganno? Promise d'usar prudenza e di farne usare agli amici Salvo e Garofalo, e n'ebbe in ricambio l'invito alle prossime nozze, a nome anche dell'Alcozèr, che:

- Non è cattivo, in fondo, poveraccio! - concluse don Marcantonio. - Che volete farci? ha la manìa delle mogli: non può farne a meno. Ma questa, se Dio vuole, sarà l'ultima! Gli diamo, sì e no, tre anni di vita? Gliel'ho detto avanti: " Caro don Diego, siamo della vita e della morte; carte in regola! " E lui, bisogna dir la verità: subito! non m'ha nemmeno lasciato finire. Cosicché, mi spiego? su questo punto, siamo a cavallo. Non dico per me, dico per mia figlia, beninteso! Poi Stellina… ci penserà lei… Debolezze, don Pepè: dicono che don Diego riprende moglie perché, stando solo, ha paura degli spiriti… Già! Credo che di notte gli appaja la Morte con l'ali. E se lo porti via presto, don Pepè! Le darei una mano io per caricarselo meglio su le spalle… Ma già, non pesa venti chili… Ai vostri comandi, e baciamo le mani. Mosca però, don Pepè: mi raccomando.

IV.

Circa due mesi dopo si celebrarono in casa Ravì le nozze tanto combattute.

Don Diego indossò per la quinta volta la lunga napoleona memore di quattro sponsali; non per avarizia, ma perché veramente era ancor nuova, sebbene di taglio antico, custodita per tanti anni con la canfora e col pepe nella cassapanca di noce stretta e lunga come una bara. Giù per il cortile le grosse papere non lo riconobbero in quell'insolito arnese, e coi lunghi colli protesi lo inseguirono fino al portone strillando come indemoniate.

" Eh eh, le anime delle defunte mogli! " pensò don Diego, arricciando il naso; e, correndo, se le cacciava dietro con le mani. - Sciò! sciò!

Marcantonio Ravì aveva largheggiato molto negli inviti, volendo, almeno in apparenza, il consenso popolare. Nessuno gli levava dal capo che la disapprovazione di tutti gli amici e conoscenti non fosse per invidia della fortuna che toccava alla figlia. E aveva preparato un lauto trattamento a maggior dispetto degli invidiosi.

Don Diego fu molto complimentato. Ma non era vecchio per nulla, e accolse con la sua solita risatina fredda tutti quei complimenti.

Per Stellina, parata di bianco e di zagare, nella pompa della festa, la commiserazione sorgeva spontanea, di nascosto, dopo le congratulazioni che ciascuno degli invitati le porgeva per convenienza, ma senza troppa effusione, per timore non dovessero sfrenar in lei qualche scoppio di pianto.

Presto il Ravì cominciò a notare un certo impaccio nella sala. L'aspetto di Stellina raggelava la festa. Invano cercò di promuovere comunque un po' di brio, incitando ora questo ora quello. Di tutti i convitati solo a Pepè Alletto, venuto coi tre fratelli Salvo (Mauro, Totò e Gasparino), riuscì alla fine a comunicare un po' di fuoco.

- Don Pepè, spetta a voi! Mi raccomando.

Pepè sentì in questa raccomandazione la conferma di quel curioso discorso tenutogli tempo addietro. Sorrise, guardò la mesta sposina che gli parve più bella nello splendido candore dell'abito nuziale, e " Perché no? " disse tra sé. Si mise al pianoforte, sonò, cantò, poi spinse gli altri a ballare e finalmente riuscì a ravvivare il festino. Tutti gliene furono grati, e più di tutti don Marcantonio. Stordito nell'allegria da lui stesso promossa, egli ora guardava don Diego, il vecchio sposo, come per compassione; e gli altri, come per dire: " Compatitelo, poveretto; il vero sposo poi, qua, sarò io ".

E nel chiudersi della festa, di cui fu l'anima, anzi l'eroe, tutti i convitati lo ammirarono tanto e tanto lo lodarono sia per il ballare, sia per come comandava le danze e come sonava il pianoforte, che a un certo punto, irresistibilmente, gli scappò detto:

- So anche il francese…

Se non che la tempesta, fin lì stornata, scoppiò a un tratto, inaspettatamente. Don Diego, per mostrarsi galante, volle porgere un bicchierino di rosolio alla sposa. Poverino: fu una cattiva ispirazione: le mani gli tremavano, anche per l'emozione: e così gliene versò qualche gocciolina su la veste, poco poco… Se le donne che le sedevano accanto avessero fatto le viste di non accorgersene, Stellina avrebbe forse saputo contenersi ancora; ma quelle invece, no: tutte premurose le si chinarono attorno coi fazzoletti a pulire, e allora, Stellina, si sa, ruppe in singhiozzi, cadde in una violenta convulsione di nervi.

Tutti accorsero a lei. Si gridava:

- Largo! Largo! Slacciatela!

Due giovanotti la sollevarono su la seggiola e la portarono in un'altra stanza. Don Diego rimase avvilito, col bicchierino in mano, più tremante che mai: buttava il resto sul tappeto, adesso! invano don Marcantonio si sbracciava a rimetter l'ordine, a tranquillar gl'invitati, ripetendo: - L'emozione, si sa! l'emozione! -. Nessuno gli dava retta, tutti erano addolorati della sorte della povera Stellina, i cui pianti e, più penose dei pianti, le risa convulse, giungevano attraverso gli usci chiusi.

Pepè Alletto, pallido, mortificato, s'era lasciato cadere su una seggiola e, con gli occhi socchiusi, si faceva vento col fazzoletto. Due lagrime, che non erano di vino, gli rigarono il volto fino ai baffi immelanconiti.

- Che hai, Pepè? - gli domandò Mauro Salvo, vedendolo in quell'atteggiamento.

Pepè levò il capo e, aprendo forzatamente le labbra a un sorriso vano, rispose con voce malferma:

- Niente… mi sento… non so…

- Hai bevuto?

- Mi ha fatto tanta pena, - disse Pepè, non degnando di rispondere a quella domanda volgare.

- Hai ragione, sì, - riprese l'amico. - Anche a me, ma andiamo intanto: t'accompagnerò a casa. Vedi? Già se ne vanno tutti…

Volle prenderlo sotto braccio; Pepè si ritrasse, risentito:

- Ma no, lasciami, grazie! mi reggo benissimo.

- L'emozione! Scusate tanto… Grazie dell'onore… L'emozione!… Buona sera, e grazie… Scusate… - diceva a questo e a quello il Ravì, distribuendo saluti, strette di mano e inchini nella saletta.

Gl'invitati andarono via in silenzio, giù per la scala, come tanti cani bastonati. Era già sonata la mezzanotte; i lampionaj avevano spento i fanali, e la via lunga, deserta, era a mala pena rischiarata dalla luna che pareva corresse dietro un leggero velario di nuvole.

- Chi sa che tragedia stanotte! - sospirò a voce un po' alta, appena fuori della porta, Luca Borrani, uno degli invitati.

Pepè Alletto, nel passargli accanto col Salvo, colse a volo la sconveniente allusione, e gli gridò sul muso:

- Porco!

Il Borrani, botta e risposta:

- Va' là, pulcinella! - E uno spintone.

L'Alletto alzò allora il bastone e giù, su la testa del Borrani; quindi, all'improvviso, uno schiaffo. Ne nacque un parapiglia, un trambusto indiavolato: braccia e bastoni per aria, schiamazzo, strilli di donne, lumi e gente a tutte le finestre delle case vicine, abbajar di cani, e tutte quelle nuvolette che correvano nel cielo.

- Che è stato? che è stato?

Giù per la via la folla agitata si allontanava confusamente, vociando. E la gente accorsa coi lumi alle finestre rimase a lungo incuriosita a spiare e a far supposizioni e commenti, finché la folla non si perdette nel bujo, in lontananza.

V.

Nossignore, bestia! T'insegno io come si fa in questi casi. Làsciati servire da me.

Ciro Coppa, tozzo, il petto e le spalle poderosi, enormi, per cui pareva anche più basso di statura, il collo taurino, il volto bruno e fiero, contornato da una corta barba riccia, folta e nerissima, la fronte resa ampia dalla calvizie incipiente, gli occhi grandi, neri, pieni di fuoco, passeggiava per il suo studio d'avvocato con una mano in tasca, nell'altra un frustino che batteva nervosamente su gli stivali da caccia. Le bocche di due grosse pistole apparivano luccicanti su le ànche, oltre la giacca.

Pepè Alletto era venuto da lui per consiglio. Aveva ricevuto la mattina stessa una lettera del Borrani. Questi non intendeva sfidarlo per l'insulto e lo schiaffo a tradimento della sera avanti, perché - diceva - alla cavalleria suol ricorrere chi ha paura, e lui non voleva nascondersi dietro le finte e le parate, tenendo per burla una sciabola in mano: lo metteva pertanto in guardia: lo avrebbe preso a calci, ovunque lo avesse incontrato, foss'anche in chiesa.

Pepè Alletto avrebbe voluto che il Coppa si recasse dal Borrani per fargli ritirare, con le buone o con le cattive, questa lettera. Non che avesse paura; non aveva paura di nessuno, lui: ma, ecco, a farla a pugni, come i ragazzacci di strada, si sa! per la sua complessione… così mingherlino… avrebbe avuto la peggio: di fronte a lui, il Borrani era un colosso. E poi, quando mai s'era inteso? calci, pugni, tra gentiluomini…

- Làsciati servire da me! - ribatté il Coppa, fermandosi in mezzo allo scrittojo e indicando col frustino al cognato la scrivania. - Lì c'è carta, penna e calamajo. Siedi e scrivi. Con una botta di penna te lo riduco io a ragione.

- Debbo dunque rispondere? - arrischiò timidamente Pepè.

Ciro batté forte il frustino su la scrivania.

- Ti dico siedi e scrivi, babbeo! Ti detto io la risposta.

Pepè si alzò perplesso, come tenuto tra due, e andò a sedere sul seggiolone di cuojo davanti alla scrivania, su cui appoggiò i gomiti, prendendosi la testa tra le mani e sospirando. Poi disse:

- Scusa… permetti? Vorrei, ecco… vorrei farti notare che la…

- Che cosa?

- La mia posizione è alquanto… non saprei… delicata. Perché io, jersera, per dir la verità… per tante ragioni… forse, ecco… non ero bene in me. Non vorrei ora compromettere…

- Che compromettere! - esclamò il Coppa, spazientito. - L'insulto, l'hai raccolto? Sì: tanto è vero, che gli hai appoggiato uno schiaffo.

- E basta! - osservò Pepè. - Lui doveva sfidarmi: non l'ha fatto; dunque…

- Dunque lo farai tu! - concluse Ciro, aprendo le braccia.

- Io? E perché? - replicò, stupito, Pepè.

- Perché sei un cretino! perché non capisci nulla! - gli urlò il cognato. - Siedi e scrivi! Adesso vedrai.

Pepè alzò le spalle, imbalordito; poi domandò con aria desolata:

- Che debbo mettere in capo alla lettera?

- Niente, né sciò né passa là! - rispose Ciro rimettendosi a passeggiare, concentrato in sé, e stirandosi con due dita i peli della moschetta. - Comincia così: La vostra lettera… - la vostra lettera… - è degna d'una persona virgola… - la vostra lettera è degna d'una persona… che star dovrebbe… scrivi!… coatta… co-at-ta, tutt'una parola.

- Lo so!

- … che star dovrebbe coatta nei bagni e nelle galere virgola… anziché… an… ziché, con una sola c, libera e sciolta… tra il consorzio della gente civile punto ammirativo. Hai scritto?

- Gente civile! scritto.

- A capo. Ma se voi siete… ma se voi siete un mascalzone virgola… io sono un gentiluomo punto e virgola e non mi lascerò… trascinare da voi ad altro scandalo punto e seguitando. E poiché ho avuto la disgrazia… così! la disgrazia di sporcarmi la mano sul vostro viso virgola spetta a me… spetta a me per riguardo alla mia persona e al mio nome… hai scritto?… di rialzarvi dal fango virgola in cui vorreste appiattarvi punto e seguitando. Vi uso perciò la generosità… ge-ne-ro-si-tà… d'inviarvi due miei rappresentanti… col più ampio mandato virgola… i quali vi restituiranno la sozza lettera virgola… che con vigliacco ardire m'avete spedita stamani. Punto. Hai scritto? Adesso firmala: G. nob. Alletto, nient'altro. Hai firmato? Rileggimela.

Pepè rilesse la lettera, ingegnandosi di dare alle parole la sonora sprezzante espressione del cognato.

- Benissimo! - approvò questi. - Scritta come Dio comanda. Una busta, e scrivi l'indirizzo. Penserò io a fargliela recapitare insieme con la sua lettera. Non darti pensiero dei padrini: te li trovo subito io. Via i Salvo, via i Garofalo! buffoncelli, che non fanno al caso nostro. Tu va' sù da tua sorella Filomena che, poverina, da due giorni sta peggio del solito. Se il medico non me la guarisce subito, finirà che lo bastono. Basta. Io debbo recarmi al Tribunale; poi giù di corsa in campagna, a tirar gli orecchi a quel boja del gabellotto. Terre morte, perdio, che non ci si ripiglia il giogàtico… Che hai? che corno hai? Paura?… Mi guardi come uno stupido…

Pepè si scosse, sorpreso da quell'uscita improvvisa, e sbuffò, seccato:

- Nient'affatto! Paura?… La testa, Ciro! mi sento la testa… non so come, da jersera…

- Di' ch'eri ubriaco, figlio mio; ci farai miglior figura! - osservò Ciro con aria di sdegnosa commiserazione. - Va', va' sù da Filomena. Io torno stasera, diglielo. Tu intanto sta' sù ad aspettare i due amici. Occhio vivo, e senza paura!

Tolse da un cassetto della scrivania alcune carte e se n'andò, col cappello a cencio buttato su un orecchio e il frustino in mano, al Tribunale.

VI.

Pepè trovò la sorella che si aggirava come un'ombra per le stanze quasi al bujo. Pareva già vecchia a trentaquattro anni: un male, che ancora i medici non riuscivano a precisare, la consumava da parecchi mesi; ma di questo ella non si lagnava, considerandolo come una lieve giunta ai tanti danni della sua vita. Non si lagnava veramente di nulla, neanche di non poter vedere la madre, già da anni in rottura mortale col genero. Avrebbe avuto tanta consolazione anche dalla sola vista di lei! Ma donna Bettina aveva giurato di non rimetter piede mai più in casa del Coppa; ed ella, per la gelosia feroce del marito, non che uscire di casa, non poteva neppure sporgere un po' il naso fuor della finestra. Non glien'importava più; non si crucciava più nemmeno in cuore della sorte tristissima che le era toccata, nascendo. L'amarezza d'una totale remissione le si leggeva ormai negli occhi silenziosi, costantemente assorti in una pena ignota, indefinita.

- Filomè, come ti senti?

Ella alzò le spalle e aprì un po' le braccia, in risposta. Pepè sbuffò per il naso; poi riprese:

- Non si potrebbe aprire un tantino la finestra?

- No! - gridò subito Filomena. - Se, Dio liberi, venisse a saperlo!

- Non c'è, è andato al Tribunale; poi andrà in campagna; tornerà stasera…

- Pepè, per piacere, lascia star chiuso. Lo sa Dio quanto desidererei prendere una boccata d'aria. Ma ormai sono arrivata, Pepè; lo sento, ne ho poco di questa prigionia. Ringraziamo Dio in cielo e in terra!

- Non dire bestialità! - esclamò Pepè, commosso.

- Mi dispiace solo - riprese con la stessa voce stanca la sorella - per i figli miei, povere anime innocenti… Ma per me sarà la liberazione… e anche per lui, per Ciro. Non lo dico per male, bada! Voi Ciro non lo conoscete: ne vedete solo i difetti… questa sua gelosia feroce, per esempio… Ma mi vuol bene, sai, a suo modo: lo dimostra così! Non doveva prender moglie, ecco tutto: era nato per un'altra vita… che so! per far l'esploratore…

- Già - approvò Pepè, - tra le bestie feroci…

- No no, - corresse amorevolmente Filomena. - Voglio dire, per una vita di rischi, e libera… Tu lo vedi, è eccessivo in tutto, e in un piccolo paese, tra la meschinità della vita di tutti i giorni, con le sue esuberanze pare anche ridicolo talvolta… Tutti i torti vuole aggiustarli lui… E una povera donna come me, qui rinchiusa, deve vivere per forza in continua apprensione…

Pepè approvava col capo, e quella sua approvazione era insieme segno di compianto per la sorella; guardava nella penombra la ricca mobilia della stanza, e tra sé diceva: " T'ha fatto ricca; ma che n'ha goduto? ".

A questo punto entrò la servetta ad annurziargli che qualcuno lo attendeva giù nello studio. Pensò che fossero i padrini (così presto?), e s'affrettò a discendere; trovò invece nello studio don Marcantonio Ravì tutt'ansante e scalmanato.

- Don Pepè mio, che avete fatto? Non me ne so dar pace!

- Il mio dovere, - rispose Pepè, breve, serio e compunto.

- Ma com'è nata codesta lite maledetta? E ora che avverrà?

- Nulla… non so… Ma state pur sicuro che la signorina… cioè, la signo…

- Dite signorina, dite signorina, don Pepè! Ah, se sapeste… Ho l'inferno in casa. Urli, strilli, convulsioni… Si ricusa assolutamente di seguire il marito! E jersera m'è rimasta in casa, capite? signorinissima! Oggi la stessa storia. Non vuol neanche vederlo! Don Diego se ne sta dietro l'uscio a sentire, e n'ha sentite… pensateci voi! Io… io per me non so più dove battere la testa… Ci voleva per giunta quest'altro guajo qui… il vostro duello! Dovete per forza fare il duello?

- E` necessario, - rispose Pepè, accigliato - siamo uomini… Le cose, del resto, sono arrivate a tal punto, che…

- Ma nient'affatto! - lo interruppe don Marcantonio. - Che uomini e uomini… chi ve l'ha messo in capo? Siete stato tanto buono voi, jersera, don Pepè mio… E ora, in compenso, vi tocca fare il duello?

- E` necessario, - ripeté l'Alletto con aria grave e pur malinconica. - Credete, peraltro, che me n'importi? Non m'importa più di nulla, ormai. Possono anche ammazzarmi: ci avrei anzi piacere.

- Un corno! - gli gridò, quasi con le lagrime a gli occhi, il Ravì. - Importa a chi vi vuol bene… Scusate se ve lo dico, siete un minchione! Credete che tutto sia finito per voi? Date tempo al tempo, non vi precipitate… lasciate fare il duello a chi ci prova gusto, a chi ve l'ha messo in capo… Dite la verità, è stato vostro cognato? Lui, è vero? L'ho immaginato subito!

Non poté continuare. Entravano nello studio Gerlando D'Ambrosio e Nocio Tucciarello, i due padrini scelti da Ciro: il D'Ambrosio alto, biondo, con le spalle in capo, miope, il mento e la guancia sinistra deturpati da una lunga cicatrice; l'altro, tozzo, barbuto, panciuto, dall'andatura stentatamente bravesca.

- Pepè, a gli ordini tuoi! Benedicite, grosso Marcantonio! - salutò il D'Ambrosio.

Nocio Tucciarello non disse nulla; contrasse soltanto una guancia come per fare un mezzo sorriso e chinò appena il capo.

- Accomodatevi, accomodatevi, - propose Pepè, premuroso, con gli occhi ora all'uno ora all'altro.

- Tante grazie, - parlò il Tucciarello, rifacendo con la guancia la smorfia di prima e alzando lentamente una mano in segno negativo. - Noi, caro don Pepè, col permesso del nostro caro si-don Marcantonio, avremmo da dirvi una parolina.

- Debbo andarmene? - chiese angustiato il Ravì  a l'Alletto. E, volgendosi ai due sopravvenuti: - So tutto, signori miei; anzi, ero venuto…

Il Tucciarello lo interruppe, posandogli leggermente una mano sul petto.

- Non c'è bisogno che aggiungiate altro. Caro don Pepè, l'affare è combinato secondo il nostro desiderio. L'amico, appena ci ha veduti, ha cambiato avviso. Gnorsì. Ci ha detto che intendeva di far le cose per benino. " E anche noi! " gli abbiamo risposto, naturalmente. Insomma, poche parole; un solo, brevissimo abboccamento coi due padrini avversarii e tutto combinato: arma, la sciabola; finché i medici non dicono basta. Siamo intesi? Domattina, alle sette in punto, io e Gerlando saremo alla porta di casa vostra: la carrozza, per non dar sospetto, ci attenderà col medico alla punta della Passeggiata, fuori del paese, donde scenderemo a Bonamorone. Mi spiego?

- Sta bene, sta bene, - s'affrettò a rispondere Pepè, con la vista intorbidata dall'interna agitazione, affermando ripetutamente col capo. - Alle sette, sta bene.

- Ma che diavolo dite, don Pepe! - scattò sù don Marcantonio. - Vi portano al macello, e sta bene? Signori miei, scherzate o dove avete il cervello? Metter di fronte così due giovanotti a cui il sangue bolle nelle vene? Io son padre di famiglia, santo e santissimo diavolone!

- Piano col diavolo, don Marcanto'! - disse allora Nocio Tucciarello pacatamente, un po' accigliato, con un lento gesto della mano. - Quando in un affar d'onore c'è di mezzo il signor me, nessuno, neanche il figlio di Domineddio, deve più metterci becco. Se voi avete da darmi comandi, sono a vostra disposizione.

- E che c'entra questo, Signore Iddio? - esclamò il Ravì . - Io parlo a fin di bene; che c'entrano i comandi? sono il vostro servo umilissimo, don Nociarello mio! Dico per il come si chiama… il duello! Se ne potrebbe fare a meno… Pensate alle conseguenze, signori miei! In fin dei conti, don Pepè ha dato di porco e ha ricevuto di pulcinella, è vero? ha dato una bastonata e ha ricevuto uno spintone; dunque, pari e patta, e affar finito. Ora il duello perché?

- Domandatelo all'illustrissimo avvocato Coppa! - rispose il Tucciarello con la stessa aria spocchiosa. - Noi abbiamo servito lui e don Pepè qui presente, che si merita questo e altro. Domattina alle sette, dunque, e baciamo le mani.

I due padrini andarono via, seguiti da don Marcantonio, cui premeva di far intendere al Tucciarello, umilmente, il suo pensiero.

VII.

Pepè rimase a riflettere nello studio, passeggiando.

" Vediamo, vediamo… " diceva a se stesso, per chiamare a raccolta le proprie forze e persuadere i nervi agitati a calmarsi. Ma nel cervello, chi sa perché, gli s'accendevano guizzi di pensieri alieni; contraeva tutto il volto. - Per una sciocchezza! - esclamò alla fine, esasperato, alzando un braccio.

Subito, sorpreso dalla sua stessa voce, si guardò attorno, per timore che qualcuno avesse potuto sentirlo, e fece un rapido mulinello col bastone.

Non aveva paura, lui.

Era vero però che si trovava in quel frangente - col rischio anche di lasciarci la pelle… (eh sì, tutto era possibile!) - per una sciocchezza. Poteva bene far le viste di non avere inteso quelle parole del Borrani. Che glien'importava, in fondo? che c'entrava lui? Ci s'era messo quasi per ridere, in quell'avventura, non perché avesse preso sul serio il discorso del Ravì, quella mezza promessa sottintesa, senz'alcun valore. Sì, ma intanto, ecco: ridendone, scherzando, egli era adesso sul punto di battersi per quella donna. E qualche diritto, ora, sul serio cominciava ad acquistarlo su lei… Perbacco, rischiava la vita! Non aveva mai tenuto in mano una sciabola; non sapeva nulla, proprio nulla, di scherma. Si vide addosso il Borrani, alto robusto e impetuoso, con l'arma in pugno, terribile; sentì mancarsi il fiato, e scappò via dallo studio, all'aria aperta, smanioso di veder gente.

Per istrada però, quasi avesse gli occhi abbagliati, non riuscì a distinguer nulla: una gran confusione, come se la gente e le case tremolassero tutte nel sole. Le orecchie gli ronzavano. S'avviò in fretta, istintivamente, verso casa. Entrando per Porta Mazzara nel sobborgo Ràbato, subitamente gli venne al pensiero la madre, e s'intenerì fino alle lagrime.

- Povera mamma!

La trovò, al solito, in giro per le ampie camere con un piumino spennato in una mano, un rosario nell'altra: labbreggiava avemarie e spolverava, accostandosi ora a questo ora a quel vecchio mobile d'antica foggia, come per andargli a confidare quelle sue preghiere.

Della pulizia di casa donna Bettina s'era fatta quasi una fissazione; tanto che, sentendo sonare il campanello della porta, non mancava mai di gridare, anche dalla stanza più intima e remota:

- Nettatevi le scarpe!

Ma, ripulendo di continuo l'antica mobilia, come attendendo alle più umili faccende domestiche, serbava sempre un contegno dignitoso, come se non sapesse quel che faceva. Teneva annodata sul capo un'enorme treccia finta, ma di capelli suoi, già da molto tempo caduti, color nocciuola, in stridente contrasto con quei pochi argentei che le erano rimasti intorno alla fronte. Reggeva questa treccia un pizzo nero, annodato sotto il mento. La palma  e il dorso delle mani piccole e bianche, inanellate, erano protetti da un pajo di guanti senza dita; le spalle da uno scialletto di seta nera, ormai inverdito. Celare a gli altri e sopportare con la massima dignità la miseria, come ogni altra sventura della vita, era studio costante di donna Bettina, la quale, per esempio, a non pochi sacrifizii s'era costretta perché un pajo d'occhiali legati in oro, le accavalciasse il bel naso aristocratico.

Nel volto, se non più nel corpo, serbava ancora la traccia dell'antica bellezza, che tante e tante fiamme aveva destate nella gioventù mascolina dei suoi tempi. Di lei s'era invaghito anche, perdutamente, ma con poca fortuna, don Diego Alcozèr. Era allora anche ricca, oltre che di nobile casato e così bella! Maritata giovanissima a don Gerlando Alletto, in trent'anni di matrimonio, ne vide però d'ogni colore. Ma tutto ormai ella aveva perdonato al marito defunto, tranne una cosa sola, di cui pareva non si potesse dar pace; che egli cioè la avesse sempre chiamata, per mero capriccio, Sabettona.

- Scempiaggine! - soleva dire. - Perché io sono sempre stata così: bassina e fina fina.

Vedendo entrare il figlio, non interruppe la preghiera né si distolse d'accostarsi alla grande mensola verso la quale era avviata. Solo quando ebbe passato il piumino sul piano di marmo di quel mobile, si volse a Pepè e fe' cenno di domandargli, con una mossettina del capo, e socchiudendo un po' gli occhi, che cosa avesse.

- Nulla, - le rispose Pepè.

Ed ella gli sorrise, senza smettere di pregare e di compire il giro della casa col piumino spennacchiato in mano.

Pepè la seguì con gli occhi, frenando a stento la commozione che lo spingeva ad accorrere verso la madre e a stringersela forte forte al petto.

" Se io venissi a mancarle! " pensò.

Ah, egli sapeva bene che colpo sarebbe stato per la sua santa vecchietta! Sentì rimorso del fastidio che aveva fin allora provato di certe esigenze amorose della madre, la quale voleva perfino che si coricasse ancora, come da ragazzo, nella stessa camera con lei.

" Sì, sì, sempre con te, mammuccia mia! " diss'egli a se stesso. E sentendo di non poter più dominarsi, andò a chiudersi in una camera.

Parecchie volte la madre, a tavola, vedendo che Pepè non mangiava e stava invece a guardarla insistentemente, gli domandò:

- Che hai?

- Nulla… nulla… - le rispose sempre, con tenerezza, Pepè.

Allora donna Bettina alzò un dito della mano a metà inguantata, e lo minacciò sorridendo:

- Io lo so! - gli disse. - S'è maritata, è vero?… con quel vecchiaccio stolido…

Pepè arrossì, poi scosse malinconicamente il capo:

- No, - le rispose, - non ci pensavo affatto…

- Bene, bene… - approvò la madre. - Non ci pensare… Non era per te… Poi la troverai, quella che sarà per te. Per ora non vorrai lasciar sola questa tua vecchia mamma, non è vero?

Pepè non seppe trattenersi più: angosciato, prese una mano della madre e se la strinse forte su le labbra:

- No, no, - le mormorò sopra, carezzandola con l'alito e baciandola, - mai, mai, mamma mia!

Si alzò di tavola. Disse che voleva tornar da Filomena per vedere se stesse meglio, e uscì di casa. Donna Bettina, sentendo nominar la figlia, si turbò. Non voleva saper più nulla di lei. Quando s'era guastata col genero, appunto per causa di lei, per il supplizio ch'egli le infliggeva, le aveva ingiunto di lasciare i figli e di venirsene a casa sua. Naturalmente Filomena s'era rifiutata, e allora ella le aveva detto che, finché stava col marito, sarebbe stata come morta per lei. Scurita in viso, seguì con gli occhi il figlio, senza domandargli nulla.

Ciro tornò tardi dalla campagna.

- Son venuti i padrini? - domandò per prima cosa a Pepè, e volle sapere le condizioni del duello. - La scìabola? Avrei preferito la pistola o la spada. Basta. Rimani a cena con noi.

Dopo cena, sapendo che Pepè non era buono neanche a maneggiare un temperino, lo fece ridiscendere con lui nello studio per insegnargli un colpo sicuro.

- Sono un po' fuori d'esercizio; ma, all'occorrenza… Tieni! - raffibbiò, togliendo da un angolo due frustini e porgendone uno a Pepè. - Fa' conto che siano sciabole.

Su la scrivania ardeva il lume, che rischiarava a mala pena lo stanzone. Nella casa, tutt'intorno, silenzio di tomba.

Pepè era al colmo dell'avvilimento: quel frustino in mano e la saccenteria spavalda del cognato che l'atteggiava in guardia dandogli colpetti sulle gambe, gli parevano uno scherzo fuor di luogo. Ciro intanto gridava, spazientito, senz'intendere che col suo gridare lo imbalordiva peggio. Si dispose anche lui in guardia di fronte a Pepè e cominciò a insegnargli il colpo infallibile. Dàlli e dàlli, alla fine si riscaldò sul serio, s'imbestialì e, gridando: - Mi rammento dei tempi antichi! - si slanciò in un assalto furibondo contro il povero cognato che, riparandosi la testa con le braccia, si chinò sotto la furia delle fischianti frustinate, gridando ajuto e misericordia.

Accorse col lume in mano la sorella:

- Ajuto! Ajuto! S'ammazzano! Ciro! Pepè!

- Zitta, bestia! Zitta! - le urlò ansante e raggiante il marito, lasciando Pepè che guaiva. - Non vedi che stiamo scherzando?