La mia fanciullezza e la mia prima gioventù
fino all'età di quindici anni l'ho passata tutta in campagna, in
una tenuta di mia madre; e di tutte le persone che io conobbi in
quel tempo ormai lontano, nessuna mi è rimasta così viva nella
memoria come uno dei nostri vicini, un certo Martino Petrovich
Carlof. Del resto, ciò si spiega facilmente, giacchè in tutta la
mia vita non ho mai conosciuto un uomo che gli somigliasse.
Figuratevi un gigante: su d'un tronco
colossale, alquanto piegata e senza traccia di collo, una testa
enorme, coperta d'una selva di capelli arruffati, di color grigio
giallastro, che sulla fronte gli arrivavano giù fin quasi alle
folte sopracciglia. Sulla larga superficie del suo volto pavonazzo,
completamente sbarbato, spiccava un grosso naso camuso, e
scintillavano con espressione di fierezza e d'orgoglio due piccoli
occhi azzurri; la bocca con le labbra screpolate era anch'essa
molto piccola e dello stesso colore di tutto il resto del volto; la
voce che usciva da quella bocca, sebbene alquanto rauca, era d'una
forza e d'una sonorità straordinaria: il suo tono faceva pensare al
fragore altissimo d'alcune sbarre di ferro che fossero trasportate
da un carro su d'una strada malamente lastricata: egli parlava
sempre così forte come se avesse dovuto farsi sentire, gridando
contro vento, da qualcuno che si trovasse al di là di un'ampia
valle.
Quale espressione avesse la sua faccia, era
difficile dire: tanto essa era ampia, che non riusciva facile
l'abbracciarla tutta in una volta con lo sguardo; però
l'impressione che quel volto produceva non era sgradevole; aveva
anzi una certa grandiosità; solo era un po' troppo strano e fuori
dell'ordinario.
E quali mani aveva quell'uomo! Dei cuscini
addirittura! E che dita, e che piedi! Mi ricordo che non potevo
sottrarmi a un senso di religioso terrore quando guardavo la sua
schiena poderosa, larga due braccia, e le sue scapole che
sembravano due macine da mulino. Ma ciò che più mi faceva stupire
in lui erano le orecchie, due enormi ciambelle, tutte pieghe, che
stringevano, spingendole in alto, le guance poderose.
Martino Petrovich portava, così d'inverno come
d'estate, una specie di tunica da cosacco, di panno verde, tenuta
ferma intorno alla vita da una cintura da Circasso, e calzava
sempre degli enormi stivaloni. Con la cravatta non lo vidi mai, e
del resto non aveva collo intorno al quale legarsela.
Quell'uomo respirava difficilmente e
lentamente, come un toro, ma si moveva senza fare alcun rumore.
Quando entrava in una camera, si sarebbe detto che egli temesse
sempre di rovesciare e di fracassare ogni cosa; e perciò si moveva
con una precauzione infinita, spostandosi sempre di fianco, quasi
scivolando.
Era dotato d'una forza veramente erculea che lo
rendeva rispettato e temuto in tutto il paese, giacchè i contadini
russi hanno ancor sempre una gran soggezione di fronte alle persone
di alta statura. E intorno a lui, appunto per quella sua forza
prodigiosa, si erano perfino formate delle leggende: si diceva, per
esempio, che un giorno, avendo incontrato nel bosco un orso, lo
avesse atterrato per il collo e strangolato; si diceva anche che
una volta, avendo sorpreso un contadino mentre stava per rubargli
il miele dagli alveari, lo avesse scaraventato col carro e col
cavallo al di là della siepe. Questa e altre storie si
raccontavano; ma Carlof stesso non si vantava mai della propria
forza.
— Se ho una mano forte — soleva ripetere, —
vuol dire che questa è la volontà di Dio.
Ma se non era superbo della sua forza fisica,
Carlof era molto fiero della sua condizione, della sua famiglia, e
della saggezza di cui credeva di essere fornito.
— La mia famiglia — egli diceva spesso — deriva
dagli Vsedesi — voleva dire Svedesi: — essa viene dallo vsedese
Carlus, il quale immigrò nella Russia durante il regno d'Ivan
Vassilievich, il Cieco. Questo Carlus, da conte finlandese divenne
gentiluomo russo e come tale fu inscritto nel libro d'oro della
nobiltà; i Carlof sono suoi discendenti, e per questo nella nostra
famiglia tutti hanno i capelli biondi, gli occhi azzurri e il volto
bianco, perchè tutti siamo, per così dire, venuti fuori dalla
neve.
— Ma, Martino Petrovich — osai dirgli un
giorno, — un Ivan Vassilievich il Cieco non è mai esistito: c'è
stato una volta un Ivan Vassilievich, detto il Terribile, ma il
soprannome di Cieco l'ha avuto soltanto il granduca Vassili
Vassilievich.
— Non dire fandonie! — rispose tranquillamente
Carlof: — quando io affermo una cosa, è così.
Un giorno, lui presente, mia madre ebbe a fare
le lodi del disinteresse di Carlof, che in realtà era
straordinario.
— Oh, Natalia Nicolaievna — gridò il gigante,
quasi arrabbiato: — sarebbe bella che non fosse così! Noi, grandi
signori, non possiamo fare diversamente, se non vogliamo che la
ciurmaglia, la contadinaglia e i vagabondi abbiano il coraggio di
pensare male di noi! Io sono un Carlof, la mia famiglia viene di là
— e così dicendo accennava col dito un punto del soffitto: — come
volete che non si abbia il sentimento dell'onore e del
disinteresse?
Un'altra volta, a un alto funzionario russo che
si trovava in visita presso mia madre, venne la cattiva idea di
burlarsi di Martino Petrovich. Questi raccontava di nuovo la storia
dello «Vsedese» Carlus immigrato in Russia… ..
— Forse al tempo del leggendario Re dei
fagiuoli? — l'interruppe il funzionario.
— No, non al tempo del Re dei fagiuoli, ma
durante il regno di Ivan Vassilievich, il Cieco.
— Io credo invece — proseguì l'altro — che la
vostra famiglia sia molto più antica, e che risalga all'epoca
antidiluviana, quando la terra era abitata dai mastodonti e dai
megaloterî… ..
Martino Petrovich non sapeva che cosa
significassero questi termini, ma capì che il suo interlocutore
voleva burlarsi di lui, e asciutto asciutto rispose:
— Può essere benissimo, perchè la mia famiglia
è veramente molto antica. Si dice che, quando il mio avo venne a
Mosca, vivesse in quella città un buffone del genere di Vostra
Eccellenza; e di quei buffoni ne viene al mondo uno ogni mille
anni.
II funzionario balzò in piedi furibondo; ma
Carlof alzò fieramente la testa sporgendo il mento in avanti, mandò
un poderoso «Hum!» di sfida e se ne andò senza aggiungere
parola.
Due giorni dopo, tornò a farci visita, e mia
madre cominciò a fargli dei rimproveri per il suo contegno.
— Stimatissima signora — la interruppe Carlof,
— quello che gli ho detto gli servirà di lezione: un'altra volta si
guarderà dallo scherzare con persone che egli non conosce: è ancora
molto giovane, quel ragazzo, e ha bisogno di essere educato.
In realtà, il funzionario aveva presso a poco
l'età di Carlof; ma il gigante era abituato a considerare tutti gli
altri uomini come bambini; inoltre, aveva una fiducia illimitata in
sè stesso e non temeva di nessuno al mondo.
— Chi potrebbe prendersela con me? C'è qualcuno
al mondo che abbia il coraggio di sfidarmi? — soleva dire; e
prorompeva in una risata breve, ma assordante.