Un Re Lear delle steppe

Ivan Sergeyevich Turgenev


RACCONTO (Versione dal russo)

Una sera d'inverno eravamo riuniti in sei presso un vecchio amico, compagno di università, e parlavamo di Shakespeare e delle sue meravigliose creazioni, di quei suoi personaggi poderosi che rappresentano così mirabilmente la natura umana, così pieni di verità e di freschezza, che ciascuno di noi ricordava d'aver incontrato in vita sua un Amleto, un Otello, un Falstaf.

— Ed io, signori miei — disse il nostro ospite, un uomo già attempato — io ho conosciuto un Re Lear.

— Come! un Re Lear! — esclamammo noi alquanto sorpresi.

— Proprio così; e se volete vi racconterò la sua storia.

— Fateci questo piacere — pregammo noi; e il nostro amico cominciò subito a raccontare.

I.

La mia fanciullezza e la mia prima gioventù fino all'età di quindici anni l'ho passata tutta in campagna, in una tenuta di mia madre; e di tutte le persone che io conobbi in quel tempo ormai lontano, nessuna mi è rimasta così viva nella memoria come uno dei nostri vicini, un certo Martino Petrovich Carlof. Del resto, ciò si spiega facilmente, giacchè in tutta la mia vita non ho mai conosciuto un uomo che gli somigliasse.

Figuratevi un gigante: su d'un tronco colossale, alquanto piegata e senza traccia di collo, una testa enorme, coperta d'una selva di capelli arruffati, di color grigio giallastro, che sulla fronte gli arrivavano giù fin quasi alle folte sopracciglia. Sulla larga superficie del suo volto pavonazzo, completamente sbarbato, spiccava un grosso naso camuso, e scintillavano con espressione di fierezza e d'orgoglio due piccoli occhi azzurri; la bocca con le labbra screpolate era anch'essa molto piccola e dello stesso colore di tutto il resto del volto; la voce che usciva da quella bocca, sebbene alquanto rauca, era d'una forza e d'una sonorità straordinaria: il suo tono faceva pensare al fragore altissimo d'alcune sbarre di ferro che fossero trasportate da un carro su d'una strada malamente lastricata: egli parlava sempre così forte come se avesse dovuto farsi sentire, gridando contro vento, da qualcuno che si trovasse al di là di un'ampia valle.

Quale espressione avesse la sua faccia, era difficile dire: tanto essa era ampia, che non riusciva facile l'abbracciarla tutta in una volta con lo sguardo; però l'impressione che quel volto produceva non era sgradevole; aveva anzi una certa grandiosità; solo era un po' troppo strano e fuori dell'ordinario.

E quali mani aveva quell'uomo! Dei cuscini addirittura! E che dita, e che piedi! Mi ricordo che non potevo sottrarmi a un senso di religioso terrore quando guardavo la sua schiena poderosa, larga due braccia, e le sue scapole che sembravano due macine da mulino. Ma ciò che più mi faceva stupire in lui erano le orecchie, due enormi ciambelle, tutte pieghe, che stringevano, spingendole in alto, le guance poderose.

Martino Petrovich portava, così d'inverno come d'estate, una specie di tunica da cosacco, di panno verde, tenuta ferma intorno alla vita da una cintura da Circasso, e calzava sempre degli enormi stivaloni. Con la cravatta non lo vidi mai, e del resto non aveva collo intorno al quale legarsela.

Quell'uomo respirava difficilmente e lentamente, come un toro, ma si moveva senza fare alcun rumore. Quando entrava in una camera, si sarebbe detto che egli temesse sempre di rovesciare e di fracassare ogni cosa; e perciò si moveva con una precauzione infinita, spostandosi sempre di fianco, quasi scivolando.

Era dotato d'una forza veramente erculea che lo rendeva rispettato e temuto in tutto il paese, giacchè i contadini russi hanno ancor sempre una gran soggezione di fronte alle persone di alta statura. E intorno a lui, appunto per quella sua forza prodigiosa, si erano perfino formate delle leggende: si diceva, per esempio, che un giorno, avendo incontrato nel bosco un orso, lo avesse atterrato per il collo e strangolato; si diceva anche che una volta, avendo sorpreso un contadino mentre stava per rubargli il miele dagli alveari, lo avesse scaraventato col carro e col cavallo al di là della siepe. Questa e altre storie si raccontavano; ma Carlof stesso non si vantava mai della propria forza.

— Se ho una mano forte — soleva ripetere, — vuol dire che questa è la volontà di Dio.

Ma se non era superbo della sua forza fisica, Carlof era molto fiero della sua condizione, della sua famiglia, e della saggezza di cui credeva di essere fornito.

— La mia famiglia — egli diceva spesso — deriva dagli Vsedesi — voleva dire Svedesi: — essa viene dallo vsedese Carlus, il quale immigrò nella Russia durante il regno d'Ivan Vassilievich, il Cieco. Questo Carlus, da conte finlandese divenne gentiluomo russo e come tale fu inscritto nel libro d'oro della nobiltà; i Carlof sono suoi discendenti, e per questo nella nostra famiglia tutti hanno i capelli biondi, gli occhi azzurri e il volto bianco, perchè tutti siamo, per così dire, venuti fuori dalla neve.

— Ma, Martino Petrovich — osai dirgli un giorno, — un Ivan Vassilievich il Cieco non è mai esistito: c'è stato una volta un Ivan Vassilievich, detto il Terribile, ma il soprannome di Cieco l'ha avuto soltanto il granduca Vassili Vassilievich.

— Non dire fandonie! — rispose tranquillamente Carlof: — quando io affermo una cosa, è così.

Un giorno, lui presente, mia madre ebbe a fare le lodi del disinteresse di Carlof, che in realtà era straordinario.

— Oh, Natalia Nicolaievna — gridò il gigante, quasi arrabbiato: — sarebbe bella che non fosse così! Noi, grandi signori, non possiamo fare diversamente, se non vogliamo che la ciurmaglia, la contadinaglia e i vagabondi abbiano il coraggio di pensare male di noi! Io sono un Carlof, la mia famiglia viene di là — e così dicendo accennava col dito un punto del soffitto: — come volete che non si abbia il sentimento dell'onore e del disinteresse?

Un'altra volta, a un alto funzionario russo che si trovava in visita presso mia madre, venne la cattiva idea di burlarsi di Martino Petrovich. Questi raccontava di nuovo la storia dello «Vsedese» Carlus immigrato in Russia… ..

— Forse al tempo del leggendario Re dei fagiuoli? — l'interruppe il funzionario.

— No, non al tempo del Re dei fagiuoli, ma durante il regno di Ivan Vassilievich, il Cieco.

— Io credo invece — proseguì l'altro — che la vostra famiglia sia molto più antica, e che risalga all'epoca antidiluviana, quando la terra era abitata dai mastodonti e dai megaloterî… ..

Martino Petrovich non sapeva che cosa significassero questi termini, ma capì che il suo interlocutore voleva burlarsi di lui, e asciutto asciutto rispose:

— Può essere benissimo, perchè la mia famiglia è veramente molto antica. Si dice che, quando il mio avo venne a Mosca, vivesse in quella città un buffone del genere di Vostra Eccellenza; e di quei buffoni ne viene al mondo uno ogni mille anni.

II funzionario balzò in piedi furibondo; ma Carlof alzò fieramente la testa sporgendo il mento in avanti, mandò un poderoso «Hum!» di sfida e se ne andò senza aggiungere parola.

Due giorni dopo, tornò a farci visita, e mia madre cominciò a fargli dei rimproveri per il suo contegno.

— Stimatissima signora — la interruppe Carlof, — quello che gli ho detto gli servirà di lezione: un'altra volta si guarderà dallo scherzare con persone che egli non conosce: è ancora molto giovane, quel ragazzo, e ha bisogno di essere educato.

In realtà, il funzionario aveva presso a poco l'età di Carlof; ma il gigante era abituato a considerare tutti gli altri uomini come bambini; inoltre, aveva una fiducia illimitata in sè stesso e non temeva di nessuno al mondo.

— Chi potrebbe prendersela con me? C'è qualcuno al mondo che abbia il coraggio di sfidarmi? — soleva dire; e prorompeva in una risata breve, ma assordante.

II.

Mia madre era molto difficile nella scelta delle persone ch'essa ammetteva in casa sua; ma quanto a Carlof, essa lo vedeva sempre volentieri e gli dimostrava una speciale benevolenza: ricordava sempre che una volta, venticinque anni prima, Carlof le aveva salvato la vita, fermando la carrozza ove essa si trovava sull'orlo di un precipizio in cui i cavalli erano già piombati: le cavezze e le tirelle si erano rotte, ma Martino Petrovich non aveva lasciato andare la ruota ch'egli era stato pronto ad afferrare, quantunque fosse costretto a uno sforzo così grande che di sotto alle unghie gli usciva il sangue.

Mia madre aveva anche pensato a dargli moglie, nella persona di una orfanella ch'essa aveva educata in casa sua: quando si sposarono, egli aveva più di quarant'anni, lei diciassette circa, ed era così gracile e piccina, che si diceva che in casa egli la portasse per ischerzo sulla palma della mano. Non era vissuta a lungo, e morendo gli aveva lasciato due figlie.

Anche dopo ch'egli era rimasto vedovo si erano conservate le relazioni d'amicizia che lo legavano alla mia famiglia; mia madre aveva pensato a collocare la figlia maggiore di Martino Petrovich in un collegio della nobiltà, poi le aveva trovato marito, e aveva anche messo gli occhi su di un uomo ch'ella pensava di far sposare con la figliuola minore del gigante.

Carlof era un bravo agricoltore: possedeva un grande terreno e lo aveva fatto coltivare con molta cura, costruendovi un po' alla volta una quantità di edifizi. Siccome era molto corpulento, non andava quasi mai a piedi; anzi diceva che la terra non poteva portarlo; e perciò girava sempre su di un carrozzino, guidando egli stesso il cavallo, una magra giumenta di trent'anni, che aveva sulle spalle una grande cicatrice in seguito a una ferita riportata nella battaglia di Borodino: quella povera bestia zoppicava sempre e da tutti e quattro i piedi; non poteva andare nè al passo nè al galoppo, e sgambettava con una specie di trotto sgangherato; si cibava di santonico e di assenzio, che trovava sui margini dei campi, cosa che io non ho mai osservato in altri cavalli. In verità, sembrava impossibile che quel ronzino sfiancato potesse trascinare un peso così enorme.

Sul carrozzino, dietro le spalle di Carlof, stava di solito il suo piccolo cosacco Maximka, montato coi piedi nudi sull'asse posteriore del veicolo e appoggiato con tutto il corpo e col viso contro la schiena del suo signore, il che lo faceva rassomigliare a un vermiciattolo che per caso fosse rimasto appiccicato a un'enorme massa di carne. Fra le attribuzioni del piccolo cosacco vi era anche quella di radere Martino Petrovich una volta la settimana; si diceva che per compiere quest'operazione il ragazzo salisse su di una tavola; alcuni burloni affermavano anzi che per radergli il mento fosse costretto a correre su e giù.

A Carlof non piaceva troppo lo starsene in casa; lo si vedeva sempre girare per la campagna nel suo carrozzino, tenendo in una mano le redini, l'altra mano, col gomito in fuori, appoggiata superbamente sul ginocchio; in testa un berretto vecchio e troppo piccolo per lui. Girava intorno i suoi occhietti di orso, in aria di sfida, apostrofava con voce di tuono tutti i contadini, i cittadini, e i mercanti che incontrava. Una mattina che io ero uscito col fucile in spalla, incontratomi e adocchiata una lepre che stava fra l'erba accanto alla strada, per farla alzare, mandò un urlo così formidabile che ne ebbi le orecchie rintronate per tutto il giorno.

III.

Come ho già detto, mia madre faceva sempre amichevole accoglienza a Martino Petrovich; essa sapeva bene come egli nutrisse per lei un'alta stima e una profonda devozione. Quando le parlava, egli le dava sempre questi titoli: «Stimatissima signora, mia padrona, mia benefattrice!»; ed essa era certa di avere in quel gigante un amico sincero che, in caso di necessità, non avrebbe esitato a sfidare tutto un esercito di contadini ribelli, per difenderla.

Veramente, non c'era da temere che una cosa simile accadesse; tuttavia mia madre, essendo vedova, era contenta di avere in Martino Petrovich un difensore; inoltre, egli era un uomo veramente onesto; non era inframmettente, non domandava mai danari a prestito, non beveva mai acquavite, e quantunque non avesse ricevuto un'educazione molto accurata, tuttavia era tutt'altro che sciocco. Mia madre aveva piena fiducia in Martino Petrovich, e il giorno in cui essa pensò di far testamento, volle lui come testimonio: Carlof dovette tornare appositamente a casa sua per prendere i grandi occhiali dalle lenti rotonde cerchiate di ferro, senza dei quali non poteva scrivere; ma anche con gli occhiali impiegò un buon quarto d'ora a tracciare sulla carta il suo nome e cognome, scritto in enormi lettere quadrate, con una quantità di svolazzi e di ghirigori; e quando ebbe terminato quel lavoro, dichiarò di essere veramente stanco, e aggiunse che per lui era una cosa egualmente faticosa così lo scrivere come il dare la caccia alle pulci.

Con tutta la benevolenza che mia madre gli dimostrava, quando egli veniva a farci visita non lo lasciavamo avanzarsi più in là della camera da pranzo, giacchè diffondeva sempre intorno a sè un odore abbastanza forte e caratteristico; un odore che faceva pensare a quello della terra appena mossa, alle acri esalazioni dei boschi, o al tanfo delle paludi.

Quando Martino Petrovich pranzava da noi, gli veniva imbandito il pasto su di una tavola separata, in un angolo; ed egli non se ne prendeva a male: sapeva che con la sua enorme corpulenza avrebbe dato noia ai vicini, ed egli stesso era più contento di mangiare in piena libertà, tanto più che divorava quanto nessun altro uomo al mondo ha mai divorato, dal tempo di Polifemo in poi. Come misura di prudenza, e per dare al suo stomaco una base solida, la prima cosa che gli s'imbandiva era un pentolone con circa sei libbre di orzo mondato.

— Senza questo orzo non ti sazieresti! — gli diceva mia madre ridendo.

— Avete ragione, mia benefattrice! — rispondeva il gigante ridendo egli pure: — finirei col divorare anche voi!

Mia madre ricorreva volentieri al consiglio di Carlof quando si trattava di decidere intorno a qualche questione che si riferisse al lavoro dei campi; ma il vocione poderoso del gigante finiva col diventarle insopportabile.

— Caro mio — gli diceva ogni tanto, — dovresti fare una cura per moderare quella tua voce benedetta; m'hai quasi assordata: sembri un trombone!

— Stimatissima signora — rispondeva di solito Carlof, — non ho nessun potere sulla mia gola. E poi, dove pescare una medicina per curarmi?

Infatti, io credo che in tutto il mondo si sarebbe stentato a trovare una medicina che avesse potuto riuscire efficace per lui. Del resto, non era mai ammalato, e il parlar molto non gli piaceva.

— I discorsi lunghi fanno diventar corto il respiro — diceva in tono sprezzante.

Solo quando si faceva cadere il discorso sul 1812, ossia sull'anno in cui egli aveva prestato servizio nella Guardia e si era guadagnato una medaglia di bronzo che portava sempre nei giorni di festa insieme col nastro dell'Ordine di Vladimiro; solo quando gli si parlava dell'invasione dei Francesi, raccontava alcuni aneddoti; ma diceva che dei veri Francesi non ce n'erano venuti in Russia, bensì soltanto alcuni poveri diavoli, dei predoni morti di fame, che scorrazzavano per il paese, miserabile ciurmaglia della quale egli aveva fatto strage nei boschi.

IV.