Appena tornai in me
pervenni ad uscire da un incubo spaventoso e di veder dinanzi agli
occhi una luce rossastra a strisce nere e
fitte.
Sentii alcune voci
sommesse coperte dal rumore dell'acqua e del
vento.
L'agitazione,
l'incertezza e un senso di terrore avevano gettata una grande
confusione nella mia mente.
Dopo poco mi accorsi che
qualcuno si avvicinava a me, mi sollevava collocandomi in una
posizione più comoda; nessuno mi aveva mai trattato fino a quel
momento con tanta sollecitudine
affettuosa.
Sentii appoggiarmi la
testa su un guanciale o su un braccio, e provai un senso di
benessere.
In cinque minuti lo
smarrimento era scomparso; mi accorsi di esser coricata nel mio
letto e che la luce rossastra era quella del
fuoco.
Era notte; una candela
ardeva sulla tavola; Bessie stava ritta a piè del letto con una
catinella in mano, e un signore, seduto al mio capezzale, si
chinava su di me.
Provai un indicibile
sollievo, un senso di protezione e di sicurezza, quando mi accorsi
che un estraneo era in camera mia, un individuo che non apparteneva
a Gateshead nè alla famiglia della signora
Reed.
Volgendo lo sguardo da
Bessie, benché la sua presenza mi fosse molto meno incresciosa che
quella di Abbot, esaminai il volto dell'estraneo. Lo conoscevo, era
il signor Lloyd, un farmacista chiamato qualche volta dalla signora
Reed quando i servi erano malati, perché per sé e per i figli
ricorreva al medico.
— Chi sono? — domandò
egli. Pronunziai il suo nome, stendendogli la mano. Egli la prese e
disse sorridendo:
— Tutto andrà bene fra
poco.
Poi mi distese con cura,
raccomandando a Bessie che nessuno mi disturbasse durante la notte;
e dopo aver fatto altre prescrizioni e assicurato che sarebbe
tornato il giorno dopo, uscì, con mio gran
dispiacere.
Mi sentivo così ben
protetta e così curata mentre egli stava seduto al mio
capezzale!
Così, quando la porta si
chiuse dietro a lui, mi parve che tutto si oscurasse; il mio cuore
fu depresso di nuovo da una inesprimibile
tristezza.
— Avete bisogno di
dormire, signorina? — domandò Bessie con una certa dolcezza nella
voce.
Non osavo rispondere per
timore di sentir quella voce rifarsi
aspra.
— Proverò. —
dissi.
— Volete bere o
desiderate mangiare qualche cosa?
— No, Bessie, vi
ringrazio.
— Allora vado a letto,
perché è mezzanotte passata; ma potete chiamarmi, se avete bisogno
di qualche cosa.
Che gentilezza
sorprendente! Essa mi dette animo a rivolgerle una
domanda:
— Bessie, che cosa mi è
accaduto? Sono forse ammalata?
— Credo che a forza di
piangere siate svenuta nella camera
rossa.
Bessie andò nella stanza
attigua, destinata alla servitù, e udii che
diceva:
— Sara, venite a dormir
con me nella camera dei bambini; non vorrei stare sola con quella
povera piccina, che potrebbe morire. L'accesso che ha avuto è così
strano! Davvero che la signora è stata troppo dura con
lei!
Sara tornò insieme con
Bessie e tutt'e due andarono a
letto.
Le sentii parlare a voce
bassa per una mezz'ora prima di addormentarsi, e afferrai qualche
frase della loro conversazione di cui indovinai
l'argomento.
Una forma tutta strana
le è passata davanti ed è sparita. — Un grosso cane nero la
inseguiva. — Tre violenti colpi alla porta della camera. — Un lume
nel cimitero, proprio sopra la tomba…
.
Questo e altro dicevano
le due donne. Alla fine si addormentarono e la candela continuò a
bruciare.
Passai la notte
vegliando angosciosamente; i miei occhi, i miei orecchi, il mio
spirito erano tesi per la paura, una di quelle paure di cui i bimbi
soltanto sono capaci.
Nessuna malattia lunga e
seria tenne dietro a quell'incidente della camera rossa, esso dette
soltanto una scossa tale ai miei nervi che la risento
tuttora.
— Sì, signora Reed,
grazie a voi, ho sofferto le dolorose angosce della sofferenza
mentale. Ma devo perdonarvi, perché ignara di quello che facevate;
perché, credendo di sradicare le mie cattive tendenze, mi
spezzavate il cuore.
La mattina dopo, verso
mezzogiorno, ero alzata e vestita, e, dopo essermi rinvoltata in
uno scialle, mi ero seduta accanto al
fuoco.
Mi sentivo debole e
affranta, ma la mia maggior sofferenza proveniva da un grande
abbattimento di spirito, che mi strappava lagrime mute; appena ne
aveva rasciugata una, un'altra mi scendeva sulle guancie; eppure
avrei dovuto esser felice, perché nessuno dei Reed era in casa;
erano tutti usciti in carrozza con la loro mamma; anche Abbot
cuciva in un'altra stanza e Bessie, che andava e veniva per
riordinare i cassetti, mi rivolgeva di tanto in tanto una parola
straordinariamente dolce.
Avrei dovuto credermi in
paradiso, assuefatta come ero a continui rimproveri e a sforzi
incompresi; ma i miei nervi erano così scossi, che la calma non
poteva più calmarli, e il piacere non poteva più eccitarli
piacevolmente.
Bessie scese in cucina e
mi portò una piccola torta, su un bel piatto cinese coperto di
uccelli del paradiso, posati su convolvoli e bocci di
rose.
Quel piatto aveva sempre
suscitato in me una viva ammirazione; avevo spesso chiesto il
permesso di prenderlo in mano per guardarlo con agio, ma fino
allora ero stata riputata indegna di quel favore, e ora quella
preziosa porcellana era posata sulle mie ginocchia e mi invitava
amichevolmente a mangiare il dolce che
conteneva.
Vano favore! Esso
giungeva troppo tardi, come quasi tutti i favori lungamente
desiderati e spesso negati.
Non potei mangiare la
torta, e le piume degli uccelli e le tinte dei fiori mi parvero
sbiaditi.
Misi da parte il piatto
e la torta.
Bessie mi domandò allora
se volevo un libro. Quella parola
libro mi produsse
una puntura momentanea. Peraltro le chiesi di
portarmi II viaggio di
Gulliver, che era nella biblioteca.
Avevo letto e riletto quel libro sempre con nuovo
piacere.
Prendevo quei racconti
come fatti veri e vi trovavo più soddisfazione che nei racconti
delle fate, perché dopo aver cercato invano le silfidi fra le
campanule, i muschi, le foglie e le edere che coprivano i vecchi
muri, mi ero alfine rassegnata pensando che esse avessero
abbandonato l'Inghilterra per rifugiarsi in qualche paese, ove i
boschi fossero più incolti, più folti, dove gli uomini avessero
maggior bisogno di loro, mentre che Lilliput e Brobdignag erano
collocati per me in qualche angolo della terra, e non dubitavo che
un giorno, potendo fare un lungo viaggio, avrei veduto i piccoli
alberi, i piccoli campi, le piccole case di quel popolo minuscolo;
le vacche, le pecore, gli uccelli di uno dei regni, o le alte
foreste, i cani enormi, i mostruosi gatti, gli uomini immensi
dell'altro impero.
Pure quando quel caro
libro fu posto fra le mie mani, quando mi misi a sfogliarne le
pagine, cercando nelle vignette l'attrattiva che vi avevo sempre
trovata, tutto mi parve cupo e nudo. I giganti non erano più altro
che spettri scarni, i pigmei, altro che genietti perfidi; Gulliver,
un viaggiatore disperato errante in regioni pericolose e
spaventose.
Chiusi il libro e lo
posai sulla tavola, accanto alla torta, che non avevo
assaggiata.
Bessie aveva terminato
di mettere in ordine la camera, e, dopo essermi lavate le mani,
aprì un cassetto, e ne cavò alcuni pezzi di seta scintillante per
fare un cappello nuovo alla bambola di
Georgiana.
Ella incominciò a
cantare:
"C'era una volta, tanto
tanto tempo fa, quando vivevamo come zingari…
."
Avevo spesso udito quel
canto e mi rendeva spesso allegra, perché Bessie aveva una voce
dolce, almeno mi pareva tale; ma in quel momento, nonostante che la
sua voce fosse sempre la stessa, pure i suoi accenti mi parevano
impregnati d'immensa tristezza.
Qualche volta, occupata
dal lavoro, ripeteva il ritornello a voce bassissima, e queste
parole: "C'era una volta, tanto tanto tempo fa" mi facevano
l'impressione di un inno funebre.
Ella intonò un'altra
ballata, veramente malinconica, che
diceva:
"I miei piedi sono
feriti, le mie membra sono stanche. La via lunga, la montagna è
selvaggia; ben presto il triste crepuscolo che la luna non
rischiarerà più con i suoi raggi, spanderà le tenebre sul cammino
del povero orfanello.
"Perché mi hanno mandato
così solo e così lontano, là ove si stendono le paludi, là ove sono
ammonticchiate le cupe roccie? Il cuore dell'uomo è duro e i buoni
angioli solamente vegliano i passi del povero
orfanello.
"Però la brezza della
sera soffia dolcemente; il cielo è senza nubi e le stelle
scintillanti spandono i loro puri raggi. Iddio, nella sua bontà,
concede protezione, sostegno e speranza al povero
orfanello.
"Anche se cadessi
passando sul ponte in rovina, anche se dovessi errare, attratto da
fuochi fatui, nelle paludi, mio Padre, che è in Cielo, mormorerebbe
nel mio orecchio promesse e benedizioni e stringerebbe sul suo
cuore l'orfanello.
"Questo pensiero deve
infondermi coraggio, benché non abbia né ricovero né genitori. Il
cielo è la mia casa, e lassù non mi mancherà il riposo. Iddio è
l'amico del povero orfanello."
— Venga, signorina Jane,
non pianga! — esclamò Bessie quando ebbe
terminato.
Tanto valeva dire al
fuoco di non bruciare; ma come avrebbe fatto ella a indovinare le
sofferenze alle quali ero in preda?
Il signor Lloyd tornò a
vedermi.
— Come, già alzata? —
disse entrando. — Ebbene, Bessie, come sta la
piccina?
Bessie rispose che stavo
bene.
— Allora dovrebbe essere
più allegra… . Venite qui, signorina Jane… . vi chiamate Jane, non
è
vero?
— Sì, signore, Jane
Eyre.
— Ebbene, avete pianto,
signorina Jane Eyre; mi potrebbe dire per chi? Avete qualche
dispiacere?
— No,
signore.
— Piange, certo, perché
non ha potuto andare in carrozza con la signora, — disse
Bessie.
— Oh! no; è troppo
grande per piangere per una sciocchezza
simile.
Io la pensavo pure così,
e sentendo offeso il mio amor proprio, risposi
prontamente:
— Non ho pianto mai per
una inezia di quel genere. Detesto di uscire in carrozza; ho pianto
perché sono infelice.
— Vergogna, signorina, —
disse Bessie.
Il buon farmacista
rimase impacciato.
Ero ritta davanti a lui,
ed egli fissò su di me i suoi occhi scrutatori. Erano grigi,
piccoli e mancavano di splendore; ora mi pare che li giudicherei
penetranti: era brutto, ma aveva l'aspetto
buono.
Dopo avermi considerata
con agio, mi disse:
— Che cosa vi fece
ammalare ieri?
— Cadde, — disse Bessie,
prendendo di nuovo la parola.
— Cadde! È forse una
bimba piccina? Non sa camminare alla sua età? Deve avere otto o
nove anni.
— Mi hanno buttata in
terra, — risposi vivamente, sentendo di nuovo una ribellione di
amor proprio, — ma non per quello mi sono ammalata, — aggiunsi
mentre il signor Lloyd si consolava con una presa di
tabacco.
Mentre egli riponeva in
tasca la tabacchiera, si sentì la campana che annunciava il pranzo
della servitù.
— Vi chiamano, Bessie, —
disse il farmacista volgendosi verso la bambinaia. — Potete
scendere; io leggerò qualche cosa alla signorina Jane, finché non
tornerete.
Bessie avrebbe preferito
di rimanere, ma fu costretta a scendere, perché sapeva che
l'esattezza era un dovere che occorreva compiere a
Gateshead.
— Se non è la caduta che
vi ha fatto ammalare, che cosa è stato dunque? — continuò il signor
Lloyd quando Bessie se ne fu
andata.
— Mi hanno rinchiusa
sola nella camera rossa che è visitata la notte da uno
spirito.
Vidi il signor Lloyd
sorridere e aggrottare lo
sopracciglia.
— Uno spirito! Siete
davvero una piccinuccia se avete paura degli
spiriti!
— Sì, ho paura
dell'ombra del signor Reed, che morì in quella camera, e di là fu
portato a sotterrare. Né Bessie né altri entrano la sera in quella
stanza, se ne possono fare a meno, ed è stata una crudeltà di
rinchiudermici sola senza lume, tanta crudeltà che mi pare di non
potermene scordar mai più.
— Sciocchezze! E fu
quello che vi rese infelice? Avete paura anche di
giorno?
— No, ma la notte
tornerà fra poco; del resto, sono infelice per altre
ragioni.
— Quali? Ditene
qualcuna.
Come avrei desiderato di
rispondere sinceramente a quella domanda! ma come era difficile il
farlo!
I bimbi sentono, ma non
analizzano i loro sentimenti, e se col pensiero riescono a far
parzialmente quell'analisi, non sanno tradurla in
parole.
Però, siccome temevo di
perdere la prima e farne l'unica occasione di mitigare il mio
dolore sfogandolo con altri, feci, dopo un istante di turbamento,
questa breve, ma sincera risposta:
— Prima di tutto non ho
né padre nè madre, nè fratelli né
sorelle.
— Avete però una buona zia e dei
buoni cugini… .
Feci una pausa e poi
risposi francamente:
— John Reed mi buttò in
terra e la zia mi rinchiuse nella sala
rossa.
II signor Lloyd per la
seconda volta ricorse alla sua
tabacchiera.
— La villa di Gateshead
non vi par bella? non siete riconoscente di vivere in una casa così
bella?
— Non è la mia casa,
signore, e Abbot dice che ho meno diritto che una serva di
abitarvi.
— Non siete, spero,
tanto stupida da desiderare di
andarvene.
— Se potessi andare
altrove, sarei ben contenta di lasciarla, ma non posso farlo finché
sono piccina.
— Forse potreste… . chi
sa? Avete altri parenti oltre la signora
Reed?
— Non credo,
signore.
— Nessuno dal lato
paterno?
— Non so; lo domandai
una volta alla signora Reed; ella mi disse che potevo avere qualche
parente povero che portasse il cognome di Eyre, ma che non sapeva
nulla di loro.
— Se ne aveste, vorreste
andare con essi?
Riflettei. La povertà
sgomenta gli uomini e più ancora i
bambini.
Essi non hanno idea di
una povertà industre, operosa e rispettabile; la parola evoca nella
loro mente l'immagine di vesti stracciate, di scarso cibo, di
focolare spento, di cattive maniere e di vizii degradanti; per me
povertà era sinonima di
degradazione.
— No, — risposi, — non
vorrei appartenere a povera gente.
— Nemmeno se fosse buona
per voi?
Scrollai la testa; non
potevo capire come avrebbe potuto esser buona quella gente se era
povera; e poi imparare a parlar come i poveri, acquistare le loro
maniere, non avere educazione, crescere come quelle misere donne,
che vedevo allattare i bimbi e lavare il bucato sulla porta delle
casupole del villaggio; no, non ero abbastanza eroica per
acquistare la libertà col suo corteo di
miserie.
— Ma i vostri parenti
sono dunque tanto poveri? Sono forse
operai?
— Non saprei dirlo; mia
zia assicura che, se ne ho, debbono appartenere alla classe dei
mendicanti, e io non vorrei chiedere
l'elemosina.
— Vorreste andare in
pensione?
Riflettei di nuovo.
Sapevo appena che cos'era una pensione. Bessie me ne aveva parlato
come di una casa dove le ragazze erano sedute su panche di legno,
davanti a una tavola grande, e dove si esigeva da loro dolcezza e
puntualità.
John Reed odiava la sua
pensione e si burlava dei maestri; ma i gusti di John non potevano
esser di norma ai miei.
Se i particolari che mi
aveva dati Bessie, particolari che aveva appresi dalle ragazze di
una casa dove aveva vissuto prima, mi sgomentavano un poco, ero
però attratta dalle cognizioni che quelle stesse ragazze avevano
acquistate.
Bessie mi vantava i bei
paesaggi, i fiori graziosi dipinti da loro; poi sapevan cantare
romanze, recitare e tradurre libri
francesi.
Ascoltando Bessie, il
mio spirito era stato colpito, e sentivo destarsi in me
l'emulazione.
Del resto la pensione
condurrebbe seco un cambiamento di vita, riempirebbe una lunga
giornata, mi allontanerebbe dagli abitanti della villa, sarebbe
infine il principio di una nuova
esistenza.
— Come sarei contenta di
andare in pensione! — risposi senza più
esitare.
— Ebbene, chi sa che
cosa può accadere! — mi disse il signor Lloyd alzandosi. — Per
questa bimba ci vorrebbe un cambiamento d'aria e di luogo —
aggiunse come se parlasse a sè stesso. I suoi nervi non sono in
buono stato.
In quel momento entrò
Bessie e si senti il rumore della carrozza della signora Reed nel
cortile.
— È la vostra padrona,
Bessie? — domandò il signor Lloyd. — Vorrei parlarle avanti di
andarmene.
Bessie lo invitò ad
entrare nella stanza da pranzo, e camminò davanti a lui per
insegnargli la via.
Nel colloquio fra il
farmacista e la signora Reed, suppongo che egli la spingesse a
mettermi in pensione.
Questo consiglio fu
certo accettato subito, perché la sera stessa Abbot e Bessie
vennero nella camera dei bambini, e credendomi addormentata, si
misero a parlare su
quell'argomento.
— La signora, — diceva
Abbot, — è molto contenta di sbarazzarsi di quella noiosa bambina,
che pare sorvegli sempre tutti e mediti qualche
complotto.
Suppongo che Abbot mi
credesse un'altra Guy Jaukes
bambina.
Allora seppi per la
prima volta, dai discorsi che Abbot fece a Bessie, che mio padre
era un povero pastore, che mia madre lo aveva sposato contro il
volere dei suoi, che consideravano quel matrimonio inferiore alla
sua condizione. Il nonno Reed, irritato da quella disubbidienza,
aveva diseredato la mamma.
Dopo un anno di
matrimonio mio padre fu attaccato dal tifo. Aveva preso il contagio
assistendo i poveri di una grande città manifatturiera, ove
quell'epidemia faceva strage. Mia madre si ammalò assistendolo, e
tutti e due morirono alla distanza di un
mese.
Bessie, dopo avere
ascoltato questo, sospirò dicendo:
— Povera signorina Jane;
merita davvero compassione!
— Sì, — rispose Abbot, —
se fosse una bella creatura si potrebbe aver pietà del suo
abbandono, ma chi può guardare un rospetto
simile?
— È vero, — rispose
Bessie esitando, — è certo che una bellezza come la signorina
Georgiana vi commoverebbe più, se fosse nella stessa
posizione.
— Sì, — esclamò
l'ardente Abbot, — tengo per la signorina Georgiana! Cara piccina,
con i suoi lunghi riccioli, con quegli occhi azzurri e quella dolce
carnagione; pare dipinta; Bessie, avrei voglia di un po' di
coniglio per cena.
— Anch'io, con le
cipolle arrostite. Venite, andiamo giù. — E
uscirono.