Tina Voß

Un carlino, tre uomini e infiniti disastri

 

Traduzione: Jessica Ravera e Roberta Giampetruzzi

 

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Colophon

1. Edizione 2017

© Dryas Verlag

Casa editrice: Dryas Verlag, Frankfurt am Main, fond a Mannheim.

Tutti i diritti sono riservati.

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta in qualsiasi forma senza il permesso scritto dell'editore o duplicata utilizzando sistemi elettronici o diffusa.

Prodotto da: Dryas Verlag, Frankfurt am Main

Redazione: Kathrin Lange, Söhlde

Traduzione dal tedesco a cura di Jessica Ravera e Roberta Giampetruzzi

Editing e revisione a cura di Erica Molinari

Impaginazione e design: © Guter Punkt, München (www.guter-punkt.de), Julia Jonas con utilizzo di immagini Shutterstock e private dell’autrice.

Disegni „Le Mops“: © Kathrin Wessel, Hamburg

Satz: Dryas Verlag, Frankfurt am Main

Informazioni bibliografiche della Biblioteca Tedesca (Deutsche Bibliothek) La Biblioteca Tedesca (Deutsche Bibliothek) riporta questa pubblicazione nella bibliografia nazionale. I dati bibliografici sono consultabili sul sito: http://dnb.ddb.de

ISBN 978-3-940855-50-3

www.dryas.de


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To all pugs in the world

A tutti i carlini del mondo

 

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Un ringraziamento …

... al signor Karlsson, che ogni giorno porta avanti lo scopo della sua vita: rendermi serena.

... a quelli che, ogni lunedì, leggono per primi ciò che scrivo e che mi motivano: Totti, Sandra, Angela e Karin.

... a Hanni per le prime letture, per il titolo e per le idee brillanti durante le riunioni mattutine.

... alla dott.ssa Resi, la mia esperta di bovini, che mi ha introdotta in questo ambito e che mi ha istruita sulla apomorfina.

... a Daniele e alla sua azienda magnifica, Lillestoff, per la stoffa e per tutte le conoscenze sui blog di cucito e sull’abbigliamento per bambini.

... a Wibke, Britta, Oaxel, Steffi, Pia, Gabi, a mia sorella e a tutte le persone gentili che mi hanno ascoltata, letta e che ho infastidito per la pubblicazione del libro.

... a Sandra Thoms, Kathrin Lange e a tutti i collaboratori della Dryas-Verlag (casa editrice) per avermi accompagnato con amore in questo progetto e per la cacciatrice di errori, Birgit, grazie alla quale ho percorso gli ultimi metri verso il traguardo.

... a S., una persona che mi ha sopportata giorno per giorno e che solo alcune volte è stata sopraffatta per pochi secondi dal sonno.

 

Un ringraziamento speciale alle persone che lavorano nella mia azienda, per la fiducia, le libertà che mi hanno concesso e per l’eccellente servizio che hanno reso per mandare avanti l’attività. Fate un lavoro eccezionale e lo dico troppo raramente.

 

Un ringraziamento, senza poter fare nomi, a tutti i lettori di questo libro che sono arrivati sin qui, anche se già sulla prima pagina appare due volte la parola “testicoli”.

 

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Indice

Cover

Titolo

Indice

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 15

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Capitolo 21

Capitolo 22

Capitolo 23

Capitolo 24

Capitolo 25

Capitolo 26

Capitolo 27

Capitolo 28

Capitolo 29

Capitolo 30

Capitolo 31

Capitolo 32

Capitolo 33

Capitolo 34

Capitolo 35

Capitolo 36

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Kapitel 1

„Io non mangerò mai qualcosa chiamato Alfalfa!“

Per quanto potesse suonare infantile non m’importava. Incrociai le braccia sul petto aspettando la solita osservazione di Johannes. Ancora qualche secondo e avrebbe detto che: la resa vitaminica, comparata alle poche calorie, era una cannonata!

“I germogli, in relazione al loro valore energetico, hanno un contenuto di vitamine che è una bomba!”

Oh bene, ora lasciava da parte il cannone e, senza passare dal via, era arrivato alle bombe!

“Il cioccolato al marzapane, in relazione al suo contenuto di grassi, ha un sapore che spacca!”

“Cioccolato?!” sbuffò. “Per niente vegano, per niente.”

“Alfalfa?! Per niente gustosa, per niente!”

“Ma ottima per il peso”, ribatté lui dandomi un pizzicotto su quel rotolino della pancia che proprio non ne voleva sapere di entrare nei jeans. Chi aveva progettato questi pantaloni di certo odiava le donne! Tutto sbrodolava fuori. I pantaloni dovrebbero arrivare fino alle costole. E tutto ci sarebbe stato dentro perfettamente. Per riuscire a pizzicare Johannes avrei dovuto farlo nei suoi bulbi oculari, o nei testicoli. Probabilmente le uniche due parti del suo corpo non toniche. Ma i testicoli poi avevano muscoli? Gli occhi di sicuro, se no non li si potrebbe roteare. Ma i testicoli? Se ne stavano solo lì appesi senza motivo. Chissà se qualcuno se l’era mai domandato. Avrei dovuto cercare su Google.

Mi piegai e afferrai la mia borsetta.

L’automobile si fermò di colpo e io sbattei con la testa sul vano portaoggetti, lasciandoci pure un’impronta della mia fronte.

“Ahi!”

“Siamo arrivati”, disse Johannes e uscì.

Mi massaggiai la fronte mentre cercavo di liberarmi dalla cintura. Nel frattempo, fuori, Johannes stava facendo il giro dell’auto, come una specie di cane da pastore, per assicurarsi che le gomme fossero tutte diritte nella stessa direzione. Feci appena in tempo a uscire che lui era già corso in avanti raggiungendo il vano di plexiglass dei carrelli.

Accanto alla nostra altalena familiare svedese, un regalo forse anche un po‘ troppo lungimirante dei genitori di Johannes, qualcuno stava parcheggiando una Mercedes Kombi nera splendente. Non appena l’auto si fermò, si aprì il portellone posteriore e ne saltò fuori uno Yeti che atterrò su quattro zampe. Con un urlo stridulo mi gettai all’indietro finendo contro la nostra Volvo. Ma gli Yeti non dovrebbero camminare in posizione eretta? E anche se così non fosse, gli Yeti quadrupedi non sono pericolosi? Anche questo avrei dovuto cercarlo su Google. Lo Yeti drizzò le orecchie e trottò verso di me. Oh, cielo! E se mi avesse mostrato i denti? Ma dove erano i suoi padroni? Che cosa si doveva fare in questi casi quando si veniva minacciati da tali bestiacce? Quando ogni tanto andavo a correre con Johannes, lui mi aveva detto che cosa fare in queste situazioni. E ne aveva anche parlato sul suo blog di consigli sulla corsa. Ma quali cavolo erano questi consigli?! Il cane–Yeti era sempre più vicino. Ecco la padrona. Una donnetta in jeans dai capelli biondo paglia scese telefonando dal Mercedes. Ci lanciò una breve occhiata e poi, tranquilla, continuò a parlare al telefonino. Ehi pronto! Il suo predatore mi aveva adocchiata e lei se ne stava lì a spettegolare?! Forse la padrona era troppo molle e non sarebbe riuscita comunque a dominare quella bestia, quindi preferiva buttarle in pasto degli ignari sconosciuti.

Infine mi venne in mente! Alzare le braccia, rotearle e gridare. Ecco com’era! Se la sarebbe data subito a gambe!

“AAAHHHH! AHAHHAHA! VIAAAAA! VIAAAA! AAHHHH!” Urlai, muovendo le braccia in circolo come le pale di un mulino a vento.

Alla biondina dai lunghi capelli cadde il telefonino di mano. Mi fissò a bocca aperta. Il cane-Yeti abbassò la testa, buttò lì un paio di bau e la rialzò subito. Fece due tre saltelli, corse dalla sua padrona, s’inchinò e poi con due balzi fu di nuovo da me. Ok, rifacciamolo!

“AHIIIII! VIAAAA VIAAAA!“ Urlai di nuovo muovendomi.

Speravo che le braccia non mi si staccassero!

Il cane dal folto pelo gettò la testa all‘indietro e ululò come una sirena. Che fosse l’urlo d’attacco? Con la coda dell’occhio vidi che Johannes aveva piantato lì il carrello e stava correndo verso di me. La tizia del cane si appoggiò al tettuccio della sua auto e si mise a… ridere! La sua bestia gigante mi voleva divorare e quella non si tratteneva dal ridere?! Johannes, davanti a me, mi bloccò immediatamente le braccia. Subito anche il cane finì di ululare.

“Dimmi, sei completamente impazzita?” sibilò.

“Impazzita?! Se non avessi agito con questa presenza di spirito il mostro mi avrebbe divorata!”

Il cane ci stava osservando con la testa inclinata, ma senza osare avvicinarsi. Guardai il parcheggio. C’erano ovunque persone impegnate nelle varie attività: alcune stavano entrando dentro al supermercato, altre stavano caricando l’auto e altre ancora reggevano in mano dei sacchetti di plastica. Sembravano tutte congelate. Come se qualcuno avesse premuto il tasto di pausa. Tutti, immobili, stavano fissando noi. Qualche auto più in là qualcuno respirava affannosamente. La padrona del cane non aveva più fiato dal tanto ridere. Provò un paio di volte a dire qualcosa, ma riuscì solo a rantolare.

“Scusi”, mormorò Johannes in direzione del Mercedes e mi trascinò via per il gomito. Lentamente, continuando però a ridere, i passanti si rimisero in movimento.

“Che cos’era questa specie di esibizione?”

“Esibizione?! Non sei forse stato tu a dirmi ciò che si deve fare quando si viene assaliti da un cane?”

“Ah, io?! Che cosa pensi di avere appena fatto?”

“Urlare forte, sembrare più grande, e remare con le braccia. Proprio come hai suggerito tu sul tuo stupido blog.”

Johannes mi squadrò come un qualcosa di indefinito portato in casa dal gatto, poi scosse la testa.

“Tu non capisci niente di cani, vero?”

“Perché mi fai questa domanda?”

“Kay, tutto questo si deve fare quando ti corre incontro una mandria di mucche.”

“Oh.”

 

Dentro al supermercato Johannes sembrò aver completamente dimenticato le mie attitudini da pastore di bovini. Come un Pacman guizzava qua e là tra gli scaffali, e i carrelli.

“Hai messo le batterie nuove?“ chiesi. Solo a guardarlo mi veniva il mal di testa. Johannes accennò un sorriso e corse verso il reparto delle verdure.

“Perché se è così te le tolgo subito”, mormorai alla sua scia di vento.

Non pianificavamo vacanza che non includesse una – sua – maratona. Lui correva e io dovevo starmene giubilante sulla pista con la macchina fotografica.

Possibilmente cambiando varie postazioni, in modo che gli amici potessero poi rimanere stupiti di quanto lui fosse fico durante tutta la corsa. Lui mi stampava prima la mappa della città e mi segnava i tempi e i posti dove io avrei dovuto aspettarlo.

Con la sua mandria belante trotterellava, passo dopo passo, attraverso un percorso a prova di stupido di 42.195 km, mentre io, rispettivamente: a piedi, in bicicletta, in taxi, in metropolitana o con qualsiasi altro maledetto mezzo di trasporto, ero costretta a fiondarmi alla porzione prestabilita del tragitto solo per vedermelo passare davanti mezzo secondo, tutto gasato.

Mezzo secondo appunto, poi dovevo infilarmi di nuovo lo zaino in spalla e affrettarmi a raggiungere la città successiva per il successivo punto strategico. Alla fine di una maratona io ero quella ridotta a uno straccio e lui il radioso corridore.

Di ogni corsa conservava: la maglietta, il numero di pettorina e la medaglia, il tutto custodito nella sua Vetrinetta della Vittoria. Tutte le scarpe da corsa, con le quali aveva corso le sue maratone, alla fine del loro ciclo vitale, venivano rimesse nella confezione originale sulla quale erano scritti tutti i suoi tempi d’arrivo. Johannes mangiava solo fino a quando raggiungeva la quantità ottimale di calorie, naturalmente già calcolata in precedenza. Si pesava ogni giorno sulla sua bilancia wireless, che trasmetteva immediatamente il risultato a un programma che supervisionava anche la conta dei suoi passi e l’intensità del sonno. Al mattino, era arrivato in bagno sciabattando già di malumore ficcandomi il suo iPhone sotto al naso. “Mi sono svegliato tre volte e le mie fasi di sonno profondo sono state troppo brevi.”

“E allora?” Fissavo lo schermo con il diagramma a barre e curve che, per quel che ne sapevo, avrebbe potuto anche rappresentare l’indice della borsa o la quantità di urina prodotta dal bestiame in un anno.

“Hai lasciato di nuovo il televisore acceso.”

“Il mio subconscio apprende meglio se lo lascio acceso durante la notte.” Risposi.

“Eh? Che cosa?”

“Sì, davvero! Ora so un sacco di cose sui sistemi bellici del futuro, sui serpenti letali nel mondo o delle bombe invisibili nel corso della Storia.” La verità era che riuscivo ad addormentarmi solo se c’era un documentario in sottofondo. Mentre il presentatore illustrava i vantaggi dei ponti XXL in Sud America io mi addormentavo sulla sua voce suadente. Seppellivo il telecomando sotto il mio viso in modo che Johannes non fosse in grado di spegnere il documentario durante la mia delicata fase di addormentamento. La maggior parte delle volte, il giorno successivo mi ritrovavo fino a mezzogiorno con una bella serie di numeri dallo 0 al 9 impressa sulla guancia e ogni tanto c’era anche un bel cerchio, regalo del tasto di spegnimento.

“Kay, ci sei?”

Trasalii. Mi ero imbambolata e Johannes era lì davanti a me con in braccio un mucchio di ananas. Poi li appoggiò delicatamente nel carrello. Prima che potessi rispondergli era già sparito a caccia di meloni, pomeli o alchechengi. Dopo, lo sapevo già, saremmo dovuti andare al negozio di prodotti biologici a comprare altre cose come: crema di mandorle, quinoa (che avevo dovuto googlare per sapere cosa fosse) e sciroppo d’acero. Diavolo! Che cosa c’è di male in queste polpettine di carne? Queste piccole, sfiziose cosine precotte del banco frigo?

“Bene, ora ho quasi tutto. Così potrai creare un fantastico sformato vegano di zucchine. Pensa che, in confronto a una lasagna, ha il diciannove per cento delle calorie in meno!”

Quando si allontanò nuovamente, con abile mossa, presi del cioccolato con marzapane, le polpettine e una bustina di orsetti gommosi e li gettai nel carrello.

Cercai di coprire il tutto alla meglio con gli ananas e mi diressi verso lo scaffale dei giornali dove c’erano le riviste di gossip con le peggiori rivelazioni sulle celebrità. (In copertina cosce scoperte con delle freccine e frasi come “Ha la cellulite?! Chi l’avrebbe mai detto!”).

Non c’era niente di più piacevole che scoprire che le star, sempre così meravigliose, non erano poi così immacolate come volevano far credere.

E dove cavolo era finito il carrello? L’avevo parcheggiato davanti allo scaffale dei preservativi. Quella zona era sempre abbastanza libera. O almeno non c’era mai nessuno lì che si mettesse a valutare con calma se fosse meglio prendere quelli sagomati, aromatizzati o doppiamente sicuri. Chi aveva potuto allora rubarmi il carrello?

No, non potevo crederci! Guardai meglio e lo vidi! Johannes spingeva il nostro carrello davanti allo scaffale dei dolciumi e stava rimettendo al loro posto i miei acquisti.

Grugnii.

“Pagherai tu” dissi alla cassa.

“Ma tocca a te!”

“Se avessimo comprato qualcosa che avrei mangiato di mia spontanea volontà, volentieri. Ma così?!”

Johannes alzò le spalle e pagò l’importo richiesto.

Mentre cercavo di comprimere tutta quella piantagione di ananas dentro al sacchetto, lui si era messo a digitare qualcosa sul suo smartphone. Mi guardò interrogativo. “Non abbiamo fretta vero?”

Prima che potessi rispondere qualcosa, il mio smartphone si mise a suonare. Per ragioni di mio gusto personale avevo sostituito il “drin” con il suono del sonar di un sottomarino. “Klara Briese sta chiamando”, c’era scritto sul display.

“Aspetta qui! Ho bisogno di fare ancora qualche passo. Sono sotto alla quantità di attività giornaliera” mi urlò nell’uscire. Poi mi spinse verso il deposito dei carrelli e corse via.

Risposi alla chiamata.

“Ehi, Klara, che sorpresa! Tutto a posto?”

“Kay, cara! Ho la notizia del secolo!” La voce di Klara strideva come quella di una groupie di Justin Bieber che aveva scoperto di poter trascorrere la notte con lui.

“Oh, Che cosa è successo?”

“Ho avuto una conferma! Un altro partecipante si è ritirato senza preavviso e quindi posso andarci io.”

“Andarci? E dove? Su Marte? A Hogwarts? Al centro della Terra? Klara sei troppo enigmatica.”

“Zimbabwe!”

“Zimcosa? Zimbabwe? E non ti stai riferendo al fast food del centro, intendi proprio il paese?”

“Esatto.”

Rimasi in silenzio. Cercai di risistemare il mio cervello, che era rimasto in stand by sulla spesa, e di riportarlo alla sua capacità ottimale. Da qualche settimana Klara aveva concluso i suoi studi di medicina, e aveva festeggiato ampiamente con tutta la compagnia. “Che ne dici? Non è il top?!”

Mentre me ne stavo lì a bocca aperta, fissando i sacchetti pieni di ananas e facendo la guardia al carrello, Johannes mi passò davanti correndo per la seconda volta, facendomi il segno di ok col pollice.

“Ma… tutto ciò è così… improvviso. Che cosa devi fare? E quando sarà? Ma la settimana prossima non saremmo dovute andare a fare shopping?“

“Mi sa che dobbiamo posticiparlo di un anno. Anche perché le collezioni di adesso non mi piacciono nemmeno. Inizierò subito, non appena avrò sistemato tutto qui. Per questo ti sto chiamando.”

Emisi un urlo. Johannes mi aveva dato un colpetto con le sue ginocchia sul retro delle mie e ci era mancato poco che cadessi. Poi aveva continuato a correre.

“Ehi, non fare mai più un urlo del genere!”

“È colpa di Johannes. Mentre ci stiamo parlando sta correndo attorno al supermercato, in modo da rimanere al passo col suo programma di training giornaliero.”

“Johannes il podista. Sì lo so. Dimmi, hai per caso idea di chi potrebbe stare nel mio appartamento per un anno? L’affitto non sarebbe un problema, avrei solo bisogno che qualcuno pagasse le spese accessorie.”

Klara viveva in una meravigliosa villetta a due piani con vista sul boschetto della città. Noi invece vivevamo nel giardino dei genitori di Johannes, in una casetta prefabbricata finanziata da loro. Avevano pianificato due camerette per bambini e ci avevano fatto capire in diverse occasioni che avrebbero provveduto anche all’arredamento e a tutte le prime necessità se solo io mi fossi degnata di regalare loro il tanto atteso e desiderato nipotino. Era anche quella parola “regalare” che mi aveva inquietata. Che significava? Nel dubbio, da allora, avevo segretamente iniziato a prendere la pillola.

“Potresti farci anche dei soldi!”

“Sì, però c’è un coinquilino: Bernd. La mia dolcezza non la posso portare in Zimbabwe e devo saperla in buone mani.”

Risi. Il carlino di Klara era fantastico. I carlini in generale non erano cani, ma un qualcosa di più. Umani quasi. Klara l’aveva chiamato come l’allevatore che gliel’aveva venduto e con cui, dopo la trattativa, era andata a letto. Durante il sesso questo ansimava nello stesso modo del suo cane. Il tutto si era ripetuto durante un’altra folle nottata. Poi i contatti si erano interrotti e Klara si domandava ancora il motivo.

“Se non trovo qualcuno che si prenda cura di Bernd non posso e non voglio partire” sospirò Klara “Non ti viene in mente proprio nessuno che sia fidato e a cui piacciano i cani?”

Johannes stava facendo dei piccoli sprint finali con vari cambi di direzione e sogghignava tutte le volte che, molleggiato, mi passava vicino.

“Ho un’idea su chi potrebbe…”

“Di te posso fidarmi! Lo so. Chi sarà il mio dog sitter?“

“Io.”

 

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Kapitel 2

 

Sulla strada di ritorno verso casa me ne stavo seduta lì, seduta in auto accanto a Johannes, come se fossi dentro a una bolla, lontana da tutto. Che cosa avevo fatto? Come potevo umiliarlo così, dicendogli che mi dava talmente sui nervi da aver colto al volo la prima occasione che mi era capitata per fuggire? E fuggire dove poi, tra le zampe di un carlino! Come sarebbe stato tutto molto più facile se la ragione fosse stata invece un uomo. Un bel rotondetto e godereccio pantofolaio da divano! Qualcuno con cui guardare insieme stupide serie televisive fino alla nausea, piuttosto che dover andare a praticare sport all’aperto con qualsiasi condizione climatica! Qualcuno che durante le mie rarissime corsette non mi sarebbe corso dietro urlando e che poi avrebbe dissertato la mia prestazione sul suo blog podistico, definendomi un “rapido bradipo”.

La chiamata di Klara era stata come una sorta di tappeto rosso per la fuga. Tutto all’improvviso mi era parso così ovvio e chiaro, come se mi avessero proiettato un film davanti, finalmente messo a fuoco. A proposito di proiettore… che cosa avrei fatto con Bernd, quando sarei dovuta andare al lavoro? Si potevano portare cani? Maledizione! A questo non avevo ancora pensato!

Dovevo assolutamente chiamare Juli e parlare di tutto con lei. Avrebbe saputo di sicuro cosa consigliarmi. In confronto ai suoi problemi, la mia vita era uno zoo di carezze e ora con l’aggiunta di un carlino.

 

"Ehi, stai pensando già a cosa ti piacerebbe cucinare per noi? Ho già messo dei segnalibri sulle pietanze che mi piacciono nel nuovo libro di ricette.”

Sussultai e mi ritrovai immediatamente nel presente.

“Abbiamo preso della panna e del gouda in modo che possa gratinare qualcosa?”

“Panna? Gouda? Ehi, pronto? La nostra alimentazione è vegana. I latticini sono assolutamente banditi!”

“Ah sì? E quando domani andremo dai tuoi per l’arrosto domenicale? Tua madre ha almeno una vaga idea del significato della parola vegana?”

“Lasciane fuori mia madre. È un’altra cosa.”

“E perché magari non ne lasci fuori anche me? Anch’io vorrei continuare a bere il mio cappuccino. Col latte! Non alla brodaglia-mistura di soja! A proposito hai preso i chicchi di caffè?”

Johannes scosse clamorosamente la testa, come se io stessi continuando a sostenere che la Terra fosse piatta.

“Ho comprato il matcha. Che assieme al latte d’avena serve a fare il matcha-shake. È una bevanda rilassante e stimolante allo stesso tempo.”

“Matcha? E che diavolo è, ora? E poi se è rilassante e stimolante contemporaneamente a che serve?! Sarebbe lo stesso se io bevessi un bicchiere di acqua. Anzi, come se l’acqua mi causasse allo stesso tempo lo stimolo a urinare e me lo bloccasse. Potrei fare anche a meno di berla! Oppure una bevanda che mi facesse crescere pur restando bassa. Rimarrei sempre un metro e sessantacinque. Non capisco.”

“Tu non vuoi capire!”

Alla sosta successiva il livello di frustrazione di Johannes era alle stelle. Potevo sentirlo chiaramente. Ma io ero solo all’inizio e lui stava bellamente ignorando i segni del mio crescente disagio.

“Il matcha è un tè verde con però un potere antiossidante maggiore di uno normale e poi era la bevanda culto dei samurai.”

“Ah, quindi poi diventavano pronti a combattere e allo stesso tempo pacifisti? Sferravano un attacco e poi scappavano?”

“Kay!”

“Molto bene. Allora dovrò andare ancora da Juli e rubarle un po‘ di caffè.”

“Dovresti essere un po’ più consapevole che ti stai nutrendo di caffè velenoso che proviene dal lavoro di bambini e da latte materno che esce da altre specie animali.”

Ora avevo raggiunto livelli alti io con la mia frustrazione! Iniziai a contare col pensiero, perché sapevo che dopo questi discorsi era l’unico modo per calmarmi. Di solito mi ci volevano almeno numeri a quattro cifre.

Per ottenere un effetto calmante più rapido presi il mio smartphone e aprii il mio verme solitario: le chat di WhatsApp, che da anni strisciavano nel mio telefono. Prima o poi Il Signor WhatsApp mi avrebbe tolto il permesso di usarlo dato l’incredibile abuso che ne facevo.

Io e Juli ci mandavamo soprattutto stupidaggini. Lei era la regina del Regno dell’Assurdo e io ne ero la degna damigella.

“Ho bisogno di rapido aiuto! Sto per diventare madre di un carlino, proprietaria di una villetta e… single.”

Dopo pochi minuti il mio telefono vibrò e aprii la chat.

Disse che avrebbe portato i cartoni per il trasloco e lo champagne per brindare.

“Che cos’hai ancora da scrivere?” Johannes cercò con lo sguardo di catturare qualche stralcio della mia conversazione sul telefono.

“Niente.” Ah, come amavo quella risposta. Sin dai tempi dell’asilo.

Mi coglievano sul fatto con il viso pieno di cioccolato. Che cosa stai mangiando? Niente. O rovistando nell’angolino segreto dell’armadio dei miei genitori. Che cosa stai facendo qui? Niente. O quando ho disegnato, con il lucido da scarpe marrone della mamma, un gigantesco elefante sulla parete bianca. Che cosa stai combinando? Niente!

“Sei a casa e hai tempo?” digitai, avendo cura però di tenere, come facevo a scuola per non farmi copiare, la mano davanti allo schermo.

“Abbasso il ponte levatoio e aspetto la tua chiamata” mi fece sapere Juli mettendo l’icona della principessa.

Johannes condusse l’auto nel parcheggio coperto e scese. L’avevano costruito con il fai da te lui e suo padre durante il fine settimana, mentre le donne – sua madre e io – preparavano una bella torta. Per i nostri uomini, mi aveva sussurrato sua madre in tono cospiratorio.

“Credo che non ti abbia fatto bene leggere e scrivere durante la marcia.”

Spalancai gli occhi, mi premetti la mano sulla bocca e gonfiai le guance, come se stessi sul punto di vomitare dalla nausea.

“Fuori dall’auto! Fuori prima di sporcare i costosi sedili in pelle.”

Johannes saltò dal mio lato e aprì la portiera. Corsi fuori, andai a chiudermi in bagno e mi morsi la mano per non ridere troppo. Di certo una reazione contrastante. Ero sul punto di scuotere violentemente la mia vita e quella delle persone che ne facevano parte. Ogni volta, prima di una decisione importante, mi comportavo come una bambinetta. A pensarci bene mi accadeva anche quando ero stanca, o ubriaca.

Sentii delle voci. Probabilmente erano vere, e non nella mia testa. Provenivano da fuori. Anche perché se fossero state dentro la mia testa, uno dei demoni avrebbe dovuto avere la voce rabbiosa della madre di Johannes. Oh, cielo! Se ero pazza almeno mi lasciassero scegliere da sola i protagonisti dei miei incubi.

“Ma perché è corsa dentro così in fretta?” chiedeva la mamma. Probabilmente, come una specie di virus trojan dentro a una mail, se ne era stata tutto il giorno buona buona dietro alle tende in attesa di vedere comparire il suo ragazzo d’oro. E quando l’aveva visto si era immediatamente attivata. Ed ecco che prontamente attivava le misure della CIA per penetrare nella nostra sfera privata e buttarcisi dentro a peso morto.

Camuffava queste incursioni con il bucato: piccola, con le camicette corte e le mutandine basse prenderai freddo alla schiena! E con l’aspirapolvere. Ragazzi, dopo il lavoro avrete di meglio da fare no? Occhiolino, occhiolino…

“Sta male” le rispose Johannes.

“Male? Nausea? Che non sia…” il tono di voce si acuì leggermente.

“Mamma, è una sciocchezza. Le succede ogni tanto di avere mal d’auto. Lei non è…“

Seguirono mormorii delusi mentre entrambi andarono in cucina, ovvero fuori portata d’orecchio. Nella mia casa, cioè la casa di Johannes, dovevo nascondere la pillola. Il mio nascondiglio fantastico mi rendeva orgogliosa ogni giorno. Chi era incinta o desiderava rimanerci avrebbe dovuto assumere dell’acido folico, giusto? Bene, io mi ero procurata un barattolino in vetro di pastiglie di acido folico e le avevo bellamente gettate tutte nel water. Probabilmente ormai si era creata una stirpe di prolifici ratti nucleari. Dentro alla boccetta vuota avevo messo le mie pillole anticoncezionali monofasiche, precedentemente estratte dal loro blister. Sapevo esattamente in quale giorno la madre di Johannes avrebbe tirato le conseguenze. Quando sarei tornata a casa dal lavoro mi avrebbe dato un pizzicotto sulla guancia chiedendomi come fosse andata e, come un elefante che cerca di nascondersi dietro a una betulla, avrebbe cercato di guardare la mia pancia.

Almeno ora non sferruzzava più in segreto il corredo per il futuro bambino.

Finalmente le voci madre-figlio cessarono. Lasciai il bagno e agguantai le mie chiavi dell’auto in corridoio, per raggiungere Juli in centro. Da quando vivevamo nella zona residenziale avevo ricominciato ad andare in auto. Certo, nel centro città ci si stava meglio senza, anche perché non ero assolutamente capace di parcheggiare. Ero un salame alla guida, diceva Johannes, ma nel mondo dei pendolari dal doppio garage e dei doppi figli era importante possedere anche una seconda auto. Valeva anche per il doppio uomo? Era diffuso? Avrei dovuto googlare pure questo prima o poi!

Quando, senza salamare ed esattamente nelle righe, parcheggiai davanti all’appartamento di Juli, mi sentii come una specie di sfuggita a un sequestro, davanti a un commissariato aperto. Immensamente sollevata, compresa e al sicuro. Suonai il citofono e, come sempre, risi nel vedere scritto Juli Agosto (gioco di parole intraducibile in italiano: Juli, nome femminile, in tedesco ha anche il significato di “luglio”). Era meglio che Juli trovasse in fretta qualcuno da sposare, o nel suo caso meglio dire qualcuna, magari che di cognome facesse “Settembre”. Il doppio nome sarebbe stato quello di un bel trimestre!

 

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Kapitel 3

La porta ronzò come un calabrone e io mi ci buttai contro con la spalla. Agli occhi di un ignaro osservatore poteva sembrare che stessi facendo un assalto agli appartamenti. Quelli della zona invece sapevano che il vecchio portone in stile liberty era molto sensibile ai cambiamenti climatici e lo manifestava imbarcandosi e rendendone difficile l’apertura.

Lentamente iniziai a salire le scale. Le scale di questa casa onorevole, come la definiva Juli quando dava il suo indirizzo. Solo Johannes nelle sue rarissime visite qui, riusciva a essere su in un battibaleno. Lo chiamava l’allenamento montano. Quando io arrivavo al secondo piano e dovevo già sorreggermi alla ringhiera, lui stava già tornando giù trotterellandomi davanti fino al pian terreno per poi risalire.

La casa era composta da cinque piani, ma si trattava di un vecchio edificio, quindi in realtà i piani erano dieci! Ogni tanto dovevo bere un po’ di acqua prima di continuare a salire. Mi mettevo sempre una bottiglietta in borsetta quando venivo qui. Ma oggi, vista la fretta nell’uscire, avrei dovuto fare senza. Con un battito cardiaco da musica techno arrivai al suo pianerottolo. Perché tutti i miei amici vivevano in mansarde? Tutti. Nessuno escluso.

Troppo di tutto può essere uno stile! Così c’era scritto a caratteri d’oro su una cartolina rosa che Juli aveva appiccicato vicino alla porta sotto alla targhetta con il nome.

Prima ancora che potessi riprendermi dal mio chillout corporeo la porta si aprì. Juli era lì in piedi, che reggeva un orologio a cucù davanti alla pancia. Dalla porticina dell’orologio saltò fuori una pecora rosa belante.

“Ho dovuto bloccare il tempo. Sei stata più rapida del solito.”

“Tu… tu… quando… io…”

Idealmente avevo sulla punta della lingua una bella dose di parole da risponderle, ma la mancanza di ossigeno bloccò tutto. Mi ci sarebbero volute vagonate di respiri profondi prima di riuscire di nuovo a pronunciare qualcosa di senso compiuto. Annaspavo come se fossi stata al traguardo di una corsa di dieci chilometri. O meglio, forse si sbuffava così dopo dieci chilometri di corsa, come potevo saperlo io?

Oh, cielo, stavo già di nuovo pensando alla corsa! Che fosse un segno? Ah sì? Segno per cosa? Andare? Restare? Carlino o uomo? Forse anche i carlini erano pericolosi no?

“Così non puoi entrare. La tua faccia paonazza stonerebbe troppo col mio nuovo copridivano rosa.” Juli mi fece l’occhiolino piegando pericolosamente la linea perfetta del suo eye liner. Poi riattaccò l’orologio a cucù al muro.

“Preparo un cappuccino!”

Dopo questa sessione sportiva mi venne caldo. Appesi la mia felpa azzurra alle corna argentate di un cervo finto, che probabilmente era stato apposto alla parete, blu, come una specie di appendiabiti.

Vicino all’orologio il mio indumento sembrava far parte di una decorazione. Come l’esposizione di una profumeria, l’arredamento di Juli cambiava a ogni visita. In quanto vetrinista probabilmente doveva riassettare continuamente tutto in modo compulsivo e originale.

“La mia italiana è calda! Iniziamo con la caffeina, poi possiamo iniziare anche col racconto?”

La macchinetta per l’espresso sibilò e poi gorgogliò. Poi ne uscì un liquido denso e scuro che Juli versò in una tazza di latte schiumoso.

Latte, l’alimentazione dei piccoli di un’altra specie.

“Juli ma la tua macchinetta soffre nel fare il caffè? Sembrava che espellesse l’espresso sotto atroci sofferenze. Come quando una persona tenta di fare pipì con la cistite.”

“Capra ignorante! Non capisci niente. L’espresso è perfetto solo quando serpeggia fuori dalla macchinetta fine come la codina di un topo. Il vostro elvetico è senz’anima!”

“E anche se fosse? Affidabile, efficiente e senza problemi alla vescica. Il piccolo svizzero ci prepara un ottimo caffè solo pigiando il display.”

Per me la nostra macchinetta automatica era fantastica. Pigiavi un tasto. Caffè pronto. Aspetta, aspetta… nostra? No, era la macchinetta di Johannes. Però dato che ora lui conduceva una vita vegana avrei anche potuto portarmela via, no? Portarmela via?

All’improvviso mi venne in mente che non ero lì per scroccare a Juli solo un po’ di vero caffè, ma una strategia per evitare l’imminente catastrofe.

“Ok, allora, racconta.”

“Sapevi che Klara si era candidata come operatrice umanitaria, o qualcosa di simile, per lo Zimbabwe?”

Le labbra semiaperte di Juli rimasero bloccate a pochi centimetri dalla tazza perché il braccio che portava il cappuccino alla bocca si era improvvisamente bloccato.

Poi fece tintinnare la tazza appoggiandola sul bancone.

La bocca era ancora aperta. Presto, una foto! Troppo tardi. Juli respirò rumorosamente.

“Che cosa vuole fare!?”

“Cooperante o qualcosa che ha a che fare con la medicina.”

“I posti in Europa per i medici donna sono tutti già stati presi?”

“Chiedilo a Klara.”

“E questo cosa c’entra con te?”

“Io andrò a badare al suo appartamento.”

“Tu? Come le è venuta questa idea?”

“Non le è venuta, infatti. Mi sono offerta io.”

“E come ti è venuta questa idea?”

“Così. Spontaneamente. Non lo so nemmeno io.”

“Kay, Klara ha un cane. Che ne sarà di lui?”

“Ecco, questa era la clausola. Rimarrà lì con me. Sperando che non morda.”

“Con te? E che ne sai tu di cani?”

Aggrottai la fronte. “Dunque fammici pensare: mammifero, quadrupede, i maschi hanno un pene, quindi le femmine probabilmente una vagina. Non fanno le uova, non vanno in letargo e… non possono volare.”

“Sei sicura?”

“Che non possano volare? Be’ certo non conosco tutte le razze, magari ce ne sono che…”

“Kay! Voglio essere certa che sia una buona idea.”

“Volare per i cani? Dovrebbero deciderlo loro se lo è.”

Juli si piego verso di me, minacciosa. Aggrottò le sopracciglia fini con rabbia.

“Sto solo scherzando un po’. Ovviamente non so se sia una buona idea o no. Ma Johannes mi prenderebbe sul serio solo se corressi una maratona in meno di tre ore e alla fine mi trasformassi in una radice di rafano. Anche sua madre non mi concepisce come una persona capace di intendere e di volere, ma piuttosto vorrebbe vedermi come una specie di sala da parto che ogni anno le sforna un nipote da tenere tra quelle braccia penzole. Nessuno di loro chiede mai cosa io desideri.”

“E che cosa desideri?”

“Poter bere il latte materno di un’altra specie. Specie che griglierei pure volentieri per benino e mi spazzerei dal piatto in un secondo. E comprare polpette. E abitare in città. Senza doppi garage o madri al posto di ascolto.”

“E per tutto questo sei disposta a prenderti in carico un cane?”

“Ecco, questo mi è un po’ sgradevole. Spero sia beneducato. Di certo più rabbioso della madre di Johannes non potrà essere.”

“Kay, è un carlino, non un rottweiler. In caso si comportasse male basta che lo prendi su e lo porti via. Non credo morda le persone.”

“In caso lo facesse, basta mettergli una museruola.”

“Un carlino con la museruola? E su cosa la metti? Ma sai almeno che aspetto ha?” Discutemmo ancora un po’ su tutte le imponderabilità che potevano esserci, legate a questo progetto. Era soprattutto la parte legata al cane a crearmi disagio. Che cosa si fa tutto il giorno con una bestia simile? La si piazza davanti ai programmi per bambini se si annoia? Problemi ok, ma più discutevo con Juli la mia decisione, più cresceva in me la sicurezza che era proprio questo ciò che volevo fare.

“Bene, quindi sembra proprio che tornerai a vivere nel grembo della grande città. Che ne dice Johannes?”

“Glielo chiederò dopo.”

“Non gli hai ancora detto nulla? Uff…”

“Volevo solo avere prima un po’ di supporto e aiuto a fare chiarezza, senza rimproveri. Anche perché la decisione è fresca di poche ore.”

“Auguri! Ma Johannes è già eliminato. Come porrai tutto ciò alla Schreiber?”

Il nostro capo, Kordula Schreiber era una donna d’acciaio che aveva creato l’azienda da zero. Ancora oggi andava a controllare personalmente nel magazzino, per vedere se il nuovo ciclo di lavorazione dell’imballaggio dei vestiti ordinati on line finalmente andasse. Juli era una vetrinista specializzata e all’inizio aveva decorato gli allestimenti per le foto degli articoli. Quando l’azienda aveva poi ottenuto un importante contratto e aveva programmato di fare uscire dei modelli per taglie comode, Juli era stata scoperta anche come modella. Da allora lavorava più davanti alla macchina fotografica che dietro ed era lei a essere allestita da altre persone.

Io affiancavo la Schreiber come Referente Junior e prima o poi ne avrei seguito le orme. Da quando avevo visto Il Diavolo veste Prada sapevo che c’era sempre di peggio.

“Lunedì glielo dirò. Bernd verrà in ditta con me, gli metteremo la cuccia sotto alla mia scrivania e tanti saluti a tutti.” Mi comportavo in modo più sicuro di quanto mi sentissi in realtà. Nei miei pensieri già mi vedevo con una specie di drone da combattimento beige al guinzaglio, pronto a mordere indiscriminatamente tutte le gambe.

“Kay?”

“Sì?”

“La Schreiber odia i cani come la peste.”

 

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Kapitel 4

Guidavo così lentamente che tutti mi sorpassavano strombazzando. Non appena arrivata a casa avrei dovuto affrontare una conversazione che non avevo nessuna voglia di fare. Questo pensiero mi paralizzava il piede sull’acceleratore. Forse avrei dovuto aspettare che Johannes facesse uno dei suoi giri di corsa. Tac! Tutti i vestiti in valigia e via. Ovviamente gli avrei lasciato una lettera in cui gli avrei spiegato tutto. In fondo non ero mica un mostro!

Il testo sarebbe potuto essere questo: “Amore, perdonami! Me ne sono andata. Bernd ha bisogno di me. Non cercarmi e sii felice.“

Verso la fine della lettera le parole sarebbero state un po’ cancellate dalle mie lacrime. Quindi per ottenere questo effetto avrei dovuto scrivere con la stilografica. Merda. Avevo una stilografica? No! Ma ne aveva una la madre di Johannes. Con la quale scriveva i nomi sui segnaposto a tavola a Natale. Sul mio c’era sempre scritto il cognome di Johannes dietro mio nome: Kay Eske Zwickel. Che cosa indegna! Anche se io volevo Johannes non desideravo però essere chiamata così. Il nome suonava così limitato. Spesso tacevo anche sul mio secondo nome e nemmeno quello volevo leggere su un segnaposto. Quando i miei genitori erano stati all’anagrafe a dichiarare il mio nome, gli era stato richiesto di pensarne anche un secondo, come Gertrud o Waltraud, in modo che fosse un po’ più evidente che fossi davvero una femmina. E così, in modo assolutamente inspiegabile sono giunti al nome Eske. Grazie al Cielo anche la cugina dell’impiegato dell’anagrafe si chiamava Eske e quindi aveva aggiunto questo supposto nome femminile al mio primo. Primo che rimaneva comunque un nome anche da maschio.

A distanza di tempo, tutto ciò che i miei genitori avevano fatto all’epoca si rivelò illegale. Mia madre pensa ancora, tutte le volte che suona uno sconosciuto alla porta, che sia qualcuno venuta ad arrestarla per aver spacciato un nome ambiguo per unicamente femminile.

Nella famiglia Zwickel invece era tutto più tradizionale e più fine. Da loro non si sarebbe mai dato il nome di un parente alla lontana di un impiegato sconosciuto. Un qualche bis bis bis nonno si chiamava Johannes. Quindi, secondo la tradizione della loro famiglia, ogni primogenito si sarebbe dovuto chiamare Johannes. Che, in combinazione con il cognome, suonava orribile. Mi faceva piacere quando l’attuale Johannes, nel dire il proprio nome, non sputasse addosso a nessuno. Io potevo dire Johannes Zwickel senza sputare solo se avevo appena deglutito poco prima. Dio mio, avrei dovuto assolutamente abbandonare tutta questa spirale di pensieri. Altrimenti avrei urlato dietro a Johannes senza che sapesse che cosa stesse davvero succedendo. Svoltai in direzione della nostra – sbagliato, ex-nostra – via e passai davanti alla casa dei suoi genitori. Andai nel giardino Zwickelino sul retro, dove la nostra casa prefabbricata e il garage doppio parevano volersi nascondere alla vista della strada.

Nel momento in cui ero passata davanti alla casa dei genitori, la tenda del salotto si era mossa. Nello stesso istante nella nostra casa si erano aperte le tende. Che la spia della CIA Zwickel madre si trovasse in due posti contemporaneamente? O lo stare in agguato dietro le tende era cosa ereditaria?

Scesi dalla macchina e lanciai sorrisi ovunque le tende si muovessero. Prima che potessi aprire la porta d'ingresso si aprì da sola dall'interno. Showtime!

“Perché per prendere chicchi di caffè ci hai impiegato così tanto tempo?” mi salutò Johannes sdegnato.

“Perché sono andata a prenderli dalla mia amica e non al discount. Lo faccio sempre. Poi chiacchieriamo e ci aggiorniamo sulle novità. Ma certo tu non puoi capirlo, dato che tu parli con qualcuno solo se ti corre di fianco.”

Solo adesso mi ero accorta che Johannes se ne stava davanti a me nel suo abbigliamento da corsa. Aveva addosso una giacca traspirante con inserti di rete sotto alle braccia, cerniere imbottite e dettagli catarifrangenti. Se mai gli abbaglianti di un autista l’avessero illuminato, il povero malcapitato avrebbe pensato di trovarsi di fronte un ufo. I pantaloni coordinati avevano persino zone differenziate in modo da raffreddare le varie parti del corpo in modo diverso. Johannes si definiva come un sudatore di testa. Dopo l’acquisto dei pantaloni, me li aveva spiegati dettagliatamente (Ehi, ciccio, sono pantaloni non una navicella spaziale!) e io l’avevo definito più un sudatore della fossa poplitea, o un sedere traspirante, e lui mi aveva chiamata capra ignorante.

“Se la chiacchiera fosse una disciplina dove conta più la qualità della quantità, tu e la tua strana amichetta sareste all’ultimo posto.”

Molto bene! Ma era sempre stato così velenoso? O improvvisamente ero io a vederlo senza filtri? Che la chiamata di Klara mi avesse mostrato una via di fuga, facendomi aprire del tutto le tende sulla situazione?

“Vorrei, se si può, scambiare con te alcune frasi di alto valore concettuale.”

“Sei fuori? Sono già in ritardo di venti minuti. Oggi nel mio giro ho cronometro e intervalli. È solo che non sapevo se ti eri portata dietro le tue chiavi, o, in caso te le fossi dimenticate, se la mamma fosse in casa.”

Oh! Almeno era premuroso. Nei miei pensieri gli stavo facendo qualcosa di ingiusto, e me ne vergognai.

“Se fossi rimasta chiusa fuori, ci sarebbe voluto un sacco di tempo col cibo. Dopo un’attività come quella che farò ho bisogno di carboidrati. Ti ho segnato la ricetta nel libro. Se inizi adesso, arriverò in tempo. I ceci cuociono a lungo.”

Saltellava sul posto in modo che i suoi muscoli appena riscaldati non si raffreddassero. Anch’io stavo cuocendo, senza ceci, e non avevo nessun bisogno di riscaldamento. Premuroso? Col cavolo!

“Johannes, voglio separarmi da te. Me ne vado. Non stiamo bene insieme.”

L’avevo detto?! Così?!

Le frasi non avevano preso una deviazione attraverso il mio cervello dove avrei potuto ornarle con delle amorevoli ghirlande fiorite? Come ad esempio: “è meglio per entrambi”, “forse è meglio restare amici, non essere una coppia”, “abbiamo obiettivi diversi nella vita”, “non voglio essere l’incubatrice di piccoli portatori di nomi come Johannes-Zwickel” oppure “non voglio andare tutte le domeniche da tua madre”. L’avevo detto. Semplicemente. E aveva suonato così bene!

Johannes non aveva smesso di saltellare sul posto. Cercai una minima reazione nel suo sguardo. Per farlo dovevo muovere la testa su e giù come un Wackel-Dackel. I saltelli ad altezza dello sguardo erano faticosi.

“Sì ma mica tutte!” disse, scosse la testa e corse via.

Forse non aveva capito?

Dalla casa dei suoi si aprì la porta della terrazza e ne uscì mamma Zwickel. Johannes corse da lei, le disse qualcosa ed entrambi scossero la testa. Poi lui continuò a correre. Lei mise le mani sui fianchi e poi marciò verso di me. Aiuto!

“Kay Eske, che cosa devo mai sentire da Johannes?”

“Il Vangelo?”